EDITORIALE – 6 – Presbitery

a cura di don MARCO VITALE

Nel suo ultimo libro, La Chiesa brucia. Crisi e futuro dellaChiesa, Andrea Riccardi – docente di Storia contemporanea, studioso della Chiesa cattolica e fondatore della Comunità di S. Egidio – indica nella costante e progressiva diminuzione del clero e della pratica religiosa i due parametri

più significativi della crisi dell’attuale Chiesa cattolica, specialmente in Europa.

Due parametri, che a ben guardare, coinvolgono da vicino il prete, il suo modo di vivere, di testimoniare la propria vocazione e di evangelizzare. In altre parole, il prete è al crocevia della crisi della Chiesa del XXI secolo sia come soggetto attivo nel suo ministero, sia come destinatario “privilegiato” della formazione della Chiesa stessa.

Ovviamente non sono ancora maturi i tempi per realizzare un confronto ponderato tra l’attuale crisi della Chiesa con quella che la stessa Chiesa visse dinanzi alla riforma protestante ma, senza dubbio, non può passare inosservata che una delle principali risposte del tempo fu, attraverso il Concilio di Trento, la formazione dei preti attraverso l’istituzione dei Seminari.

Dopo 500 anni, aiutati dalla prassi ecclesiale e dalle scienze umane, non possiamo negare che la formazione del clero sia uno strumento imprescindibile per orientare l’attuale crisi verso un’opportunità di crescita e maturazione della comunità ecclesiale, piuttosto che verso un’ulteriore e dolorosa regressione.

In questo panorama la formazione, remota e permanente del clero, mostra tutta la sua importanza per formare un clero (diaconi, preti e vescovi) all’altezza delle sfide della società contemporanea e della cura pastorale delle comunità cristiane, parrocchiali, diocesane.

Un primo aspetto, di cui molti “addetti ai lavori” parlano, ma senza che poi tale dibattito prenda forme concrete in scelte consequenziali, è la necessità che la formazione in vista dell’ordinazione (ad oggi identificabile con l’esperienza nei seminari) e la formazione successiva all’ordinazione (quella abitualmente definita “permanente”) sia pensata in modo coordinato. È impensabile continuare ad idearle come due aspetti separati, autonomi ed indipendenti, rivolti a due soggetti diversi (il seminarista e il prete) come se il prete di domani non fosse il seminarista

di oggi.

È evidente che in tempi di crisi, non solo la formazione permanente ma anche i Seminari siano generalmente in grandi difficoltà: piuttosto che chiudersi in sé per trovare una soluzione (che probabilmente non arriverà se non da Vescovi lungimiranti), sarebbe opportuno che creassero “alleanza” con i formatori della formazione permanente. In questo contesto, non si può non accennare alla necessità di formare in modo

specifico i preti che dovranno occuparsi della formazione permanente

del clero e dei seminari.

In questo numero ci concentreremo sulla realtà della formazione permanente.

Ci sono, senza dubbio almeno altre due questioni chiave che, per onestà intellettuale, non è possibile eludere.

La prima, concerne i destinatari della formazione permanente.

Generalmente, le diocesi italiane si concentrano sui preti con non più di dieci anni di ordinazione. Dieci anni su circa 40-50 anni di Ministero attivo. Senza grandi analisi statistiche o psico-pedagogiche, è facile intuire che l’investimento è sicuramente troppo esiguo per sperare che porti frutti di qualità ed eviti, almeno, qualche comportamento “pericoloso”. La prima formazione di un prete deve indiscutibilmente nascere all’interno della sua comunità cristiana e terminare… con la sua morte!

La seconda, riguarda la natura stessa della formazione permanente: deve essere sostanzialmente aggiornamento, informazione o piuttosto vera e propria formazione capace di dar forma, modellare il prete, in base a un criterio o a un progetto? Non solo… In ciò che noi chiamiamo formazione

permanente del clero (e ancor più negli anni di seminario), non sarebbe opportuna un’attenzione specifica alla dimensione educativa della persona per trarre fuori e sviluppare le sue qualità interiori?

Rimane, senza dubbio, un nodo di fondo: quali obiettivi formativi per la formazione permanente del clero? La logica vorrebbe che per stilare gli obiettivi formativi si avesse chiaro cosa e come i preti dovrebbero fare. Purtroppo, se vogliamo essere onesti, non abbiamo questi punti di riferimento anche se possiamo e dobbiamo provare a porci qualche domanda.

Il prete, particolarmente del clero diocesano, deve essere formato per servire la comunità parrocchiale? Un conto è essere parroco di 50000 persone in una grande città e un altro è esserlo di 500 persone in montagna o di 3000 in quattro parrocchie di una vallata. Un panorama è quello del parroco “a tempo pieno” un altro è quello del parroco che lavora anche in curia, insegna religione e fa anche il cappellano in ospedale o in carcere. Diversa la situazione di un parroco 30enne e quella

di un parroco 80enne…

In generale, crediamo sia molto importante proseguire a camminare su:

1. la linea indicata dal Concilio Vaticano II: non separare mai la vita dal Ministero ma non separare neppure la formazione dalla vita e dal ministero. Come diceva Agostino: «mi nutro di ciò di cui nutro voi»;

2. l’insegnamento del Vangelo e l’attenzione di Gesù verso gli “ultimi”.

All’interno del dibattito sulla formazione permanente del clero c’è poi il confronto sul “luogo” dove svolgere questa formazione.

Evito volontariamente di entrare in questo dibattito perché, guardando le svariate scelte fatte in Italia, credo risulti evidente che nessuna sia graditissima e che non si possa offrire suggerimenti generali. Il riferimento però ad un “luogo” teologico-spirituale lo faccio volentieri perché credo possa aiutare, se lo si desidera, a prendere decisioni in merito il più possibile “incarnate”.

Il riferimento a cui sto pensando è quello del discernimento comunitario come “luogo” esistenziale. È innegabile che il discernimento comunitario sia parte della struttura stessa del presbiterio (CD 11) e credo che la responsabilità che condividiamo noi preti con il vescovo ci possa davvero aiutare a crescere.

Non è un caso che la più alta definizione di presbiterio venga data da Giovanni Paolo II proprio nel capitolo VI della Pastores dabo vobis dedicato, appunto, alla formazione permanente: il presbiterio è Mistero!

È bene che questo lo ricordino anche i vescovi, della cui formazione permanente si parla assai poco….

Se sapremo strutturare la vita pratica del presbiterio come un luogo di fondamentale discernimento sulla volontà di Dio per la Chiesa di oggi, anche le nostre comunità parrocchiali sapranno assumere lo stesso atteggiamento e, nell’affrontare le situazioni che via via la provvidenza ci pone di fronte, sapremo crescere anche noi preti in modo integrato ed armonioso; potremmo anche avere un luogo, sia nel presbiterio che nella

parrocchia, di affettuosa reciprocità (comunione) che è l’humus sul quale è possibile edificare il discernimento e la Chiesa.

Il dibattito sulla formazione del prete ovviamente non termina in questa monografia ma speriamo che il nostro contributo possa suscitare l’interesse dei nostri lettori e favorire il loro contributo sul tema nelle loro realtà ecclesiali.