La Regula ad servos Dei di Agostino

Introduzione ad Agostino. Settimana di studi 11-15 novembre 2019

Institutum Patristicum Augustinianum, Roma, 14 novembre 2019

  1. Introduzione

La Regula ad servos Dei, che chiameremo anche Praeceptum o reg. 3, è la più antica dell’Occidente e risale probabilmente al 397 (così secondo Van Bavel), anche se non mancano ipotesi che la collocano prima oppure dopo nel tempo. È stata scritta per i fratelli laici del monastero del giardino, istituito a Ippona nel 391. Nessun’altra regola ha radunato attorno a sé famiglie religiose così vaste e articolate. Essa è un manifesto della carità, in quanto non fa altro che applicare in tutti i modi il principio basilare espresso nel cap. 1: lo spirito di fraternità diventa una costante tensione d’amore. Nel cap. 2 si parla della preghiera comune, cuore pulsante della comunità monastica. Il cap. 3, in cui si parla anche di frugalità e mortificazione, testimonia comunque una sapienza e un’attenzione non comune ai bisogni delle persone. Il tema dominante il cap. 4 è la prudenza e la discrezione nei confronti delle persone dell’altro sesso, per non cedere alla tentazione del desiderio. Il senso del cap. 5, riguardante l’uso dei beni, più che nelle norme in se stesse – spesso oggi non più applicabili – si trova nello spirito che le anima: occorre dar prova di avere una disposizione di santità, per anteporre il bene comune a quello privato. In questa prospettiva, si inserisce il discorso sulla correzione fraterna, al cap. 6. Il cap. 7 è invece tutto dedicato al modo di esercitare l’autorità e l’obbedienza. Con il cap. 8 l’amore torna a essere al centro, in una visione mistico-contemplativa.[1]

Secondo Verheijen, il testo si può strutturare nel seguente modo:

  • Prologo, brevissimo: «Questi sono i precetti che prescriviamo a voi stabiliti nel monastero»;
  • A, parte fondamentale, che traccia il quadro di ciò che segue: reg. 3, 1.
  • B, capitoli di precisazioni e applicazioni, che concretizzano quanto detto in A: reg. 3, 2-7.
  • C, la parte più importante, in cui l’autore con uno sguardo retrospettivo penetra nell’intimo del proprio pensiero: reg. 3, 8,1: «Il Signore vi conceda di osservare con amore queste norme, quali innamorati della bellezza spirituale ed esalanti dalla vostra santa convivenza il buon profumo di Cristo, non come servi sotto la legge, ma come uomini liberi sotto la grazia».
  • Epilogo, breve, con esortazione a leggere ripetutamente la Regula.[2]

È vero che i principi del Praeceptum ben traducono ciò che intimamente Agostino è stato: un teologo e pastore che ha sempre vissuto in mezzo agli altri come un monaco prestato al mondo, realizzando così un felice connubio tra preghiera e contemplazione, studio e lavoro, opere e servizio.[3]

Occorre, però, fugare alcuni dubbi sulla sua autenticità. Infatti, la paternità del Praeceptum non è documentata né da Agostino nelle retr., né da Possidio nell’indiculus (ossia non ci sono criteri esterni di autenticità). Per quanto riguarda invece i criteri interni, non sembrano esserci dubbi che l’opera sia dell’Ipponense.[4]

Tra gli altri, Van Bavel ha osservato che la Regula, spesso scarna, deve essere stata il sunto di un insegnamento orale molto più abbondante. Il testo è di una densità che raramente si riscontra altrove. Scavando all’interno di una frase, ci si immerge in un lavoro che può condurre molto lontano, finanche a rapporti indiretti ma reali con altri testi, agostiniani e non.[5]

  • L’autenticità alla prova

In primo luogo, mettiamo in evidenza alcuni paralleli tra i vari capitoli del Praeceptum e il resto del corpus Augustinianum:[6]

  • Cap. 1. Natura e fondamenti della vita monastica
  • Il cor unum in Deum della Regula rivela un carattere ecclesiale: cf. civ. 12,22, dove si legge in pluribus unitas; si veda anche en. Ps. 132,2: «vivere nell’unità […] e che cosa significa nell’unità se non avere un’anima sola e un cuor solo in Dio?»; ancora reg. 3, 1 è simile a s. 205,2, discorso per l’inizio della Quaresima, nel quale Agostino invita a essere: «tutti concordi, tutti fedeli con fedeltà, tutti, in questo pellegrinaggio, sospirando per il desiderio e ardendo per l’amore dell’unica patria».[7] La perfezione si realizza vivendo con i fratelli in unità, grazie al dono dello Spirito santo. L’esperienza dell’unità è frutto della carità e la carità è dono dello Spirito santo.
  • Essere in Deum significa vivere nell’interiorità, disposti a corrispondere e ad accogliere i doni che Dio vuole concedere. L’in Deum che Agostino aggiunge alla citazione di Act. 4,32a esprime la cifra dell’interiorità: vita concordissima et intensissima in Deum (mor. 1,31,67, composto nel 387-388), godendo del colloquio con Dio, al quale si aderisce nella contemplazione della sua bellezza (mor. 1,31,66). L’in Deum rivela anche la tensione escatologica verso la celeste Gerusalemme, che i consacrati in qualche modo anticipano su questa terra (si veda anche, Io. eu. tr. 124,5,7, sulle due vite rappresentate da Pietro e Giovanni, simboli della vita attiva e di quella contemplativa).
  • L’unità ecclesiale è frutto della comunione sia nella fede che nella carità. La vera forza unitiva è la carità, la quale, anche nelle comunità monastiche, fonde in uno le anime dei vari membri: cf. c. Faust. 5,9; ep. 243,4. La carità è per Agostino non un sentimento umano, ma un dono di grazia: si sta insieme in comunità non perché ci si è scelti come amici, ma perché è Dio stesso che ha riunito quanti erano dispersi. Ciò non significa che l’uomo non abbia niente da fare: egli è chiamato, invece, a corrispondere al dono di grazia ricevuto. Nelle comunità monastiche, quindi, si tratta di vivere concordi nella ricerca di Dio, per farsi illuminare da lui; cf. Io. eu. tr. 76,4, e ancora s. 71,12,18: «per mezzo di ciò che è comune al Padre e al Figlio, hanno voluto che noi fossimo uniti tra noi e con loro, e mediante questo dono raccoglierci nell’unità mediante l’unico dono ch’essi hanno in comune, per mezzo cioè dello Spirito Santo, Dio e dono di Dio».[8]
  • A proposito della comunione dei beni materiali, come riferisce Possidio (Vita 5), Agostino chiede, anzi esige dai suoi chierici la condivisione dei beni materiali, perché egli stesso la visse personalmente (cf. s. 355, del periodo episcopale e relativo al monasterium clericorum). Questo pensiero agostiniano deriva evidentemente dalla Scrittura, ma anche dalla filosofia antica. Agostino considera inscindibile la comunione dei beni dalla carità, o meglio l’amore spirituale è a fondamento di quello materiale. L’amore vicendevole crea la vera uguaglianza, perché mira a colmare le differenze, tenendo conto delle necessità personali.
  • Per vivere in pace nella comunità religiosa, non basta che tutti abitino la stessa casa e che ci sia mensa comune. La comunione di beni materiali deve servire a eliminare la superbia, che è il perverso amore di eccellere e «ha in odio l’uguaglianza con i propri compagni» (civ. 19,12,2). La superbia e la carità sono i due amori che hanno dato origine, rispettivamente, alla città degli uomini e alla città di Dio (cf. civ.; Gn. litt. 11,14,18. 11,15,20).[9] Si comprende, quindi, il richiamo della Regula all’umiltà, per chiunque entra in comunità, da qualunque condizione sociale provenga (cf. op. mon. 25,33, opera composta nel 400). Altrove, Agostino afferma che «l’umiltà è la custode della carità» (exp. Gal. 15).
  • Cap. 2. La preghiera comunitaria

La Regula non contiene istruzioni per l’ascesi personale, ma vuole dare indicazioni pratiche per favorire la comunione di tutti con Dio e fra di loro. Tra queste norme, un posto privilegiato spetta alla preghiera comune, espressione della comunione spirituale.

Reg. 3, 2 parla della preghiera fatta a Dio psalmis et hymnis. Hymnus è un termine usato circa 100 volte in en. Ps. e meno di 50 volte nel resto delle opere di Agostino (escludendo le 32 volte di ep. 237, in cui però si riferisce a un inno apocrifo). In en. Ps. 72,1. 148,17 si spiega cosa è l’hymnus: una lode a Dio nel canto. Come canto, si può intendere sia l’esecuzione musicale, sia un “canto interiore”. La preghiera autentica, alla quale Agostino invita nella Regula, è interiore, oppure non è preghiera: clamor cordis ad Dominum (cf. en. Ps. 118, 29,1). Gli esecutori di questo canto devono avere una coscienza ecclesiale, ossia cantare interiormente essendo costituiti “in Cristo”. Reg. 3, 2 ha dunque un valore fortemente comunionale. In reg. 3, 2 si dice di cantare solo quod legitis e non quod autem non ita scriptum est: sulla base anche di doctr. chr. 2,13,20, questo passo della Regula si può interpretare nel senso di cantare il testo “scritto”, e non un altro al quale i fedeli potevano essere in qualche modo avvezzi.[10] Parlando più in generale, per Agostino la preghiera non si limita a quella che si fa in tempi stabiliti, ma abbraccia tutte le opere e la vita del cristiano (cf. s. 34,6), affinché l’esistenza di ciascun fedele diventi un sacrificio offerto a Dio (cf. civ. 10,6).

  • Cap. 3. L’ascesi

La Regula è sobria ed equilibrata e dominata dalla preoccupazione di salvaguardare la salute, però prescrive ugualmente per il religioso digiuni e astinenze. Agostino giustifica le pratiche disciplinari non perché legato a concezioni manichee o platoniche, da lui respinte (cf. util. ieiun. 4,4), ma per esercitare la propria volontà contro le tentazioni e per aiutare i poveri. La pratica dell’ascesi per soccorrere i poveri e le dispense concesse a chi è malato rientrano nel più ampio orizzonte della carità, in quanto nella comunità religiosa l’uguaglianza si realizza trattando ciascuno con carità (cf. mor. 1,33,73, dove ci si riferisce ai cristiani che fanno vita comune nelle città sotto la guida di un presbitero). Infine, l’ascesi è valida perché predispone alla preghiera (cf. ep. 130,16,31).

In reg. 3, 3 si trova l’espressione carnem vestram domate. Molto simile è la sequenza domare carnem che si trova in s. 205,2 e s. 207,2.

Reg. 3, 3 parla di ascoltare la lettura durante i pasti senza protestare. L’usanza della lettura durante i pasti risale ai Cappadoci, come ci informa Cass., inst. 4,17 e come testimonia Bas., Rb. 180: «DOMANDA 180: Con quale disposizione d’animo e quale attenzione dobbiamo ascoltare quelli che ci fanno la lettura durante il pasto?

RISPOSTA: Con maggiore piacere di quello che abbiamo nel mangiare e nel bere, affinché la mente non si mostri distratta nei piaceri del corpo, ma anzi goda di più delle parole del Signore che di essi, con la stessa disposizione d’animo di colui che disse: “Sono più dolci del miele e del favo” (Ps. 18,11)».

Il fatto di ascoltare sine tumultu et contentionibus a cui si allude in reg. 3, 3 può voler dire, in assonanza con s. dom. m. 1,11,32, ascoltare la Parola di Dio con mitezza e pietà, senza opporre resistenze, anche se essa a volta è dura da intendere.

  • Cap. 4. Modestia e custodia della castità

Secondo Verheijen le opere di Agostino tra il 386 e l’inizio dell’episcopato (395) rivelerebbero che egli non si era ancora molto dedicato alla riflessione sul celibato e sul matrimonio. L’assenza di riflessioni proprie in questo ambito, emerge anche dall’esordio brusco di reg. 3, 4: «Il vostro abito non sia appariscente; non cercate di piacere per le vesti ma per il contegno. Quando uscite, andate insieme ed insieme rimanete quando sarete giunti a destinazione».

A ciò si può rispondere tenendo presente il genere letterario del Praeceptum, che è una monitio, nella quale si danno precetti senza fornire una spiegazione dottrinale, a differenza dei trattati morali veri e propri.

L’avvertimento di non uscire da soli è volto a preservare i religiosi da episodi scandalosi di cui potevano essere vittime o protagonisti (cf. ep. 13*,3). Sulla stessa lunghezza d’onda le prescrizioni riguardanti il contegno nel comportamento (cf. virg. 54, datato al 401). Il riferimento alla purezza dello sguardo deriva da Mt. 5,27-28, a cui Agostino aggiunge un’annotazione sul modo in cui Dio esercita la provvidenza verso di noi: “per mezzo di noi stessi”. Secondo Van Bavel ciò vuol dire che Dio ci protegge nell’ambito della comunità attraverso le persone che ci sono accanto.[11] Nella correzione fraterna Agostino assegna un ruolo speciale al capo della comunità, ma tutti sono chiamati a correggere con carità chi sbaglia.

A proposito della correzione fraterna, in s. 211,5, si legge: «Bisogna stabilire tra di voi alcuni pacieri che lo convincano anzitutto a chiedere perdono a te. Tu devi semplicemente essere pronto a perdonargli, proprio pronto a perdonargli con tutto il cuore». Il contesto è diverso da reg. 3, 4, ma è identico il “pre-testo” (ossia il modo di esprimersi) sulla correzione fraterna.

  • Cap. 5. L’uno a servizio dell’altro

Il cap. 5 della Regula secondo Verheijen è il più monastico, nel senso stretto del termine, in quanto descrive come i religiosi sono chiamati a mettersi al servizio l’uno dell’altro per soddisfare i bisogni della vita comune. Parlando dell’abito, Agostino insiste nel preoccuparsi non tanto di quello esteriore, quanto piuttosto di quello interiore del cuore, che deve rivestirsi di Gesù Cristo. A proposito del lavoro, si dice che esso va compiuto tenendo in vista prima di tutto il bene comune e non quello del singolo individuo. Attorno all’anno 400, Agostino scrisse anche un libro, De opere monachorum, per giustificare la bontà del lavoro manuale, attraverso il quale l’uomo è associato da Dio all’azione creatrice. Il lavoro non è una conseguenza del peccato, ma ha ricevuto la benedizione di Dio prima della caduta e, pertanto, è buono in se stesso. Il lavoro riguarda anche la cura del corpo e dello spirito dei fratelli e va esercitato per il bene comune: in tal senso, esso deve diventare il riverbero della carità, la quale è abbinata con l’umiltà.

La Regula può essere considerata come un prisma attraverso il quale leggere tutte le opere di Agostino. In particolare, il passo di reg. 3, 5 sull’anteporre le cose comuni a quelle proprie e sulla preminenza della carità (con citazione di 1 Cor. 13,5), può trovare quasi un commentario d’autore in en. Ps. 105,34: «quella città gloriosissima […] non conterrà cittadini che godranno in privato delle loro cose, poiché sarà Dio tutto in tutti. E chiunque, durante il presente pellegrinaggio terreno, aspirerà con fede ardente a far parte di questa compagnia, si abitua fin d’ora a preferire ai beni privati quelli che sono di tutti, cercando non le cose proprie, ma quelle di Gesù Cristo. Così, rinunciando alla sua personale sapienza ed al suo personale interesse, egli non esaspera Dio con il suo consiglio, ma sperando in quel che non vede, non si affretta ad inseguire la felicità nelle cose che si vedono. e nell’attesa paziente dell’eterna realtà che non si vede, nelle promesse si attiene al consiglio di colui da cui implora l’aiuto nelle tentazioni». A proposito della citazione di 1 Cor. 13,5, sul fatto che la carità non cerca i propri interessi, ci sono svariati testi agostiniani di interesse monastico nei quali si allude al medesimo versetto o ad altri simili per presentare la vita di alcuni monaci laici o di membri del monasterium clericorum: cf. op. mon. 25,32; ep. 20*,32,1. Ci sono poi moltissimi altri testi di Agostino di interesse non monastico che rivelano lo stesso pensiero; cf. inter alia s. 46, de pastoribus. La centralità della carità è il tratto distintivo di ogni cristiano, a qualsiasi condizione od ordine egli appartenga. Agostino parlava di ciò sia quando come monaco si indirizzava ai servi di Dio nel monastero, sia quando come vescovo si preoccupava della salvezza propria e di quella del suo gregge.

Riguardo l’espressione de consilio medicinae di reg. 3, 5, l’uso del sostantivo medicina è identico a quanto si trova in lib. arb. 3,8,23, dove si parla di ars medicina, e in s. 278,2, praecepta quae dat medicina: in questi testi medicina, come in reg. 3, 5, designa un medico, ossia un esperto di medicina.

  • Cap. 6. Il reciproco perdono delle offese

Nel cap. 6 del Praeceptum, presentando la pratica della correzione fraterna, Agostino fa emergere il proprio realismo e concretezza, come si vede anche in altri suoi scritti nei quali descrive situazioni reali e non ideali vissute nell’ambito della vita religiosa (cf. ep. 78,9; en. Ps. 99,12). Come la carità è la forza che unifica e dà vita, così l’odio divide e uccide e, perciò, deve essere completamente assente dalla vita religiosa. Van Bavel fa notare che Agostino è molto severo contro il male compiuto all’interno della comunità religiosa, mentre è più tollerante quando si rivolge più in generale alla comunità cristiana (cf. la polemica contro gli intransigenti donatisti). Ciò perché nessuno è obbligato a entrare nella comunità religiosa allo scopo di essere salvato, mentre tutti facciamo parte della comunità ecclesiale, dalla quale è più rischioso separarsi. La vita religiosa, che è un ideale scelto liberamente, esige impegno costante e l’Ipponense si mostra severo contro le trasgressioni compiute dai servi di Dio nel monastero.[12] In particolare, Agostino si scaglia contro l’odio, una passione che va sempre eliminata, anche se insorgesse per una giusta causa. La frase del Praeceptum: evitare che «l’ira diventi odio e la paglia si trasformi in una trave» unisce l’insegnamento evangelico e quello filosofico, come ha notato Verheijen, il quale menziona un passo delle Disputationes Tusculanae di Cicerone dove si dice che «l’odio è l’ira inveterata» (Cic., Tusculanes 4,9,21).

A proposito dell’espulsione di un membro dalla comunità religiosa, si veda reg. 3, 6: Qui autem numquam vult petere veniam, aut non ex animo petit, sine causa est in monasterio, etiam si inde non proiciatur; cf. pure reg. 3, 4: de vestra societate proiciatur. Questi passi sono molto simili a quanto si legge in c. ep. Parm. 3,2,16: «Ora, mentre è facile, per un vescovo, rimuovere un chierico dall’ordine e, per un vescovo o un chierico o un prelato, investito di autorità, allontanare uno dal numero dei poveri che sono nutriti dalla Chiesa o dalla stessa assemblea dei laici, e indurre quelli ai quali si può dare questo precetto, a non mangiare neppure con loro, non è altrettanto facile poter escludere e scacciare dalla mescolanza coi buoni, una moltitudine di cattivi presenti nei diversi ordini della Chiesa». L’espressione “numero dei poveri che sono nutriti dalla Chiesa” si riferisce ai servi di Dio nel monastero, come chiarisce s. 355,6: «la Chiesa per il tramite della quale Dio nutre noi (sc. coloro che vivono nel monastero)». Riteniamo che in quest’ultimo caso Agostino si riferisca specificamente al monasterium clericorum, perché il discorso è dettato dall’episodio del prete Gennaro, membro del monastero, che era morto lasciando testamento, in modo contrario alla regola di vita assunta.

  • Cap. 7. Obbedienza e autorità

Il cap. 7 della Regula è dedicato all’obbedienza. Come si legge in civ. 19,13, la pace dipende dalla concordia ordinata tra chi deve obbedire e chi deve comandare. Il giusto ordine da instaurare nella comunità è l’osservanza della legge eterna, secondo la quale bisogna amare Dio, noi stessi e il prossimo. Colui che presiede non deve pensare di dominare sugli altri, né aspirare a un posto superiore, ma accettare il fardello dell’autorità solo se imposto e per dovere di carità.

Il superiore, quindi, sarà il primo a osservare la regola e a cercare di farsi amare come un padre; i religiosi, da parte loro, sono chiamati a obbedire per non offendere Dio nella persona del superiore. Obbedire significa inoltre avere compassione per il superiore, ossia farsi carico della responsabilità che ricade su di lui (cf. op. mon. 33,41). In quest’ottica, come rileva Van Bavel, nei monasteri agostiniani la centralizzazione era meno forte di quella che si riscontrava nei monasteri posti sotto un ἀββᾶ o una ἀμμά.[13] Colui che guida viene chiamato semplicemente praepositus – anche Basilio, nel corpus Asceticon, parla di προεστώς –, non ἀββᾶ, e non cessa di essere un fratello tra gli altri; nella forma democratica della Regula si potrebbe pensare a una sorta di protesta contro la società romana dell’epoca, caratterizzata da una organizzazione estremamente giuridica e da strutture di potere.

In reg. 3, 7 si dice inoltre che il praepositus deve rimettersi al presbyter per le trasgressioni gravi commesse da uno dei membri della comunità. Sulla base si passi paralleli (soprattutto op. mon. 26,35), sembra che questa preminenza del sacerdote riguardasse anche il ministero dottrinale, specialmente la spiegazione della Sacra Scrittura, che era una condizione necessaria per l’ordinazione sacerdotale e non per la vita monastica.[14]

  • Cap. 8. Innamorati della spirituale bellezza

L’ultimo cap. è insieme al primo il pilastro fondante del Praeceptum: esso specifica lo spirito che deve animare l’osservanza monastica. Agostino raccomanda di osservare i precetti cum dilectione, cioè con spirito mistico-contemplativo, con carità. Solo la carità fa sì che ogni atto morale diventi un atto religioso: «Non si rende culto a Dio se non amandolo. […] Perciò la sapienza è l’amore di Dio» (ep. 140,18,45). La carità è l’unico precetto dell’intera regola, come si vede sia dal cap. 1, sia dal cap. 8, perché solo la carità unisce e fa di molti una sola cosa in Dio.

Agostino, inoltre, invita a osservare la Regula con gioia e libertà di figli, non con il timore dei servi. Questa sottolineatura, di sapore paolino, fa eco a quanto l’Ipponense aveva scritto nel 395: «Chi infatti serve mosso da carità serve liberamente e senza meschinità e, obbedendo a Dio, fa con amore quel che gli viene suggerito, non con timore, quasi che vi fosse costretto» (exp. Gal. 43). Più avanti negli anni, mentre Pelagio insisterà in modo unilaterale sulla “lettera” della legge, Agostino porrà maggiormente l’accento sulla grazia, ossia sul dono dello Spirito santo, che rende possibile un’osservanza filiale della legge: «se il precetto della legge si mette in pratica per paura della pena e non per amore della giustizia, si agisce servilmente, non liberamente, e quindi non si mette nemmeno in pratica. Non è buono infatti il frutto che non sorge dalla radice della carità» (spir. et litt. 14,26).

Per quanto riguarda il riferimento di reg. 3, 8 alla spiritalis pulchritudo, si tratta di un tema vastissimo in Agostino. In Io. eu. tr. 9,9 troviamo importanti osservazioni chiarificatrici: «è Dio che ha preso l’iniziativa. […] ora lo amiamo e amandolo diventiamo belli. […] In che modo saremo belli? Amando lui, che è sempre bello. Quanto cresce in te l’amore, tanto cresce la bellezza; la carità è appunto la bellezza dell’anima». Questo testo rivela per sommi capi cosa Agostino intenda per bellezza spirituale: la bellezza della virtù, specialmente quella della regina delle virtù, che è la carità. A ciò occorre aggiungere la bellezza della Chiesa (cf. s. 46,37. 138,10) e la bellezza dell’incarnazione, pur nella bruttezza dell’umanità ferità dal peccato (cf. en. Ps. 44,3). Tutti i cristiani, e in modo speciale i religiosi, sono chiamati a contemplare la bellezza di Cristo, diventando così belli anche loro (cf. virg. 56). La tematica della bellezza è presente anche nelle opere del giovane Agostino, e si basa su reminiscenze classiche (Platone nell’Ippia maggiore, nel Convito, nel Fedro, nella Repubblica, nel Timeo). Il giovane Agostino sapeva che l’amore della vera sapienza e l’amore della vera bellezza sono uguali: cf. uera rel. 51,100. Anche se nelle opere giovanili l’Ipponense presenta il carattere generale e globale della bellezza morale, mentre negli scritti del periodo episcopale la descrizione si fa molto più particolareggiata (es. bellezza della carità, della fede, ecc.), c’è in lui una innegabile continuità per quanto concerne l’ambito dell’amore della bellezza.

L’invito conclusivo a specchiarsi nella Regula, ossia a entrare in se stessi ed esaminarsi, va di pari passo con quanto si legge in en. Ps. 103, 1,4, dove Agostino afferma che lo specchio che Dio mette davanti a ogni cristiano è la Scrittura. L’osservanza della regola è possibile come grazia concessa da Dio, omnium bonorum largitor. Da ciò si origina, dunque, non un vanto per l’uomo, ma un rendimento di grazie nei confronti di Dio (cf. perseu. 14,36, con citazione di Cipr., Ad Quir. 3,4).

  • Sintesi

Sulla base della mole di materiale agostiniano fin qui addotto, si può affermare con un buon margine di sicurezza che il Praeceptum, ossia la Regula ad servos Dei, è stata scritta dal vescovo di Ippona. Inoltre, per quanto riguarda lo stile del Praeceptum, esso si accorda molto bene con l’autenticità agostiniana: prosa stilizzata, ricca di parallelismi, spesso antitetici.

  • Chiarificazione terminologica per distinguere i nove testi “regolativi” del corpus Augustinianum
  • Testi rivolti agli uomini:
    • Praeceptum: la Regula ad servos Dei (reg. 3);
    • Ordo monasterii: breve regola che inizia con Ante omnia, […];
    • Praeceptum longius: Ordo monasterii + Praeceptum;
    • Regula recepta: prima frase dell’Ordo monasterii + Praeceptum (questa fu la regola osservata dai Canonici Regolari nonché dagli Eremitani nel XIII secolo).
  • Testi rivolti alle donne:
    • Obiurgatio: ep. 211,1-4;
    • Regularis Informatio: versione femminile del Praeceptum;
    • Epistula longior: Obiurgatio + Regularis Informatio
    • Ordo monasterii feminis datus: versione femminile dell’Ordo monasterii;
    • Epistula longissima: parti scelte di Obiurgatio, Ordo monasterii feminis datus e Regularis Informatio.

Dagli studi sul testo di Praeceptum e Regularis Informatio, nonché della tradizione manoscritta, si può ritenere che la priorità vada data alla versione maschile, e che poi un adattamento sia stato fatto per la versione femminile. Il Praeceptum è scritto direttamente da Agostino, mentre la Regularis Informatio ha una autenticità agostiniana indiretta. Per quanto concerne l’Ordo monasterii, il corpo del testo non sembra essere stato redatto da Agostino, il quale forse compose le parti iniziali e finali.

  • Genere letterario – rapporti con la filosofia classica

Secondo Cipriani (cf. NBA 7/2, 10) il Praeceptum, come dice il nome stesso, rientra nel genere morale della precettistica, che voleva dare regole precise per una determinata categoria di persone, in questo caso coloro che vivono nel monasterium, ossia i monaci. Fedele alla precettistica della filosofia morale latina (cf. Seneca), Agostino non offre né un semplice regolamento della vita quotidiana nel monastero, né una institutio generale della vita cristiana. Saranno le successive regole monastiche del Maestro e di Benedetto ad affrontare i suddetti due aspetti, mentre il Praeceptum agostiniano non mira a formare cristiani perfetti da ogni punto di vista, bensì cristiani capaci di vivere nel monastero.

Nella struttura della Regula la formula ut observetis compare all’inizio e alla fine, come una cerniera. All’interno ci sono praecepta vivendi che sono da osservare con amore per la bellezza spirituale. Questo schema con l’attenzione ai praecepta vivendi si ritrova già negli scritti di Cassiciacum, in particolare in ord. 2,8,25, che si potrebbe quasi chiamare “la prima regola agostiniana”. Tale “prima regola” si ispirava a “Pitagora”, tuttavia non tanto al Pitagora storico (VI sec. a.C.), quanto piuttosto a quello che ci è narrato dalle fonti filosofiche, specialmente la Vita pitagorica di Giamblico (IV sec. d.C.). Si potrebbe dire che Agostino abbia conosciuto “Pitagora” per il tramite di Varrone e abbia quindi attinto da queste letture pitagoriche l’amore per la bellezza: anche i precetti del De ordine, infatti, giungono alla contemplazione della Bellezza. Gli influssi pitagorici sul De ordine e poi sulla Regula non sminuiscono il valore cristiano di quest’ultima, ma rivelano come il meglio dell’etica classica sia passato nella concezione monastica agostiniana.

L’influsso dell’etica classica sulla Regula si vede anche in altri punti. Ricordiamo specialmente:

  • Le parole di reg. 3, 3: «meglio avere poche necessità che molti beni», che corrispondono tra l’altro a Seneca, De constantia sapientis 13,3: «Il saggio sa che i ricchi non sono diversi dai mendicanti, anzi che sono più infelici; quelli, infatti, hanno bisogno di poco, questi di molto»
  • reg. 3, 7: «sebbene siano cose necessarie entrambe, tuttavia preferisca piuttosto essere amato che temuto» è esattamente l’opposto di quanto praticano i tiranni che oderint, dum metuant, come diceva Caligola. Cicerone, nel De officis 2,7,23, è molto vicino ad Agostino: «Tra tutti i mezzi nessuno è più adatto a difendere e mantenere la propria potenza di quello di essere amato, e nessuno più controindicato di quello di essere temuto».
  • reg. 3, 5, sul bene comune da anteporre a quello proprio è molto simile a quanto lo stesso Agostino scrive precedentemente in De libero arbitrio 1,6,14, sintetizzando quella che può essere ritenuta una sorta di “etica sociale dell’Antichità”: «supponi che un popolo sia formato alla moderazione e alla saggezza e sia custode diligente del comune benessere sicché ciascuno stima di meno il proprio interesse che quello pubblico».

Secondo Verheijen il Praeceptum sarebbe stato scritto per il primo monastero di Ippona, quello dei laici. C’è una somiglianza tra il cammino descritto dalla Regula con i praecepta vivendi verso la spiritalis pulchritudo e la struttura dell’ascesa spirituale presentata nel De quantitate animae (cf. an. quant. 35,79: CSEL 89, 228). Si noti anche il confronto tra l’esortazione conclusiva della Regula, espressa dal binomio sub legesub gratia e mor. 30,64, dove si trova il sintagma sub lege e si parla anche di amore. Quest’ultima opera è datata a subito dopo la conversione di Agostino (387-388), così che il parallelo riscontrato si spiega senza difficoltà qualora si ammettesse per la Regula una data di composizione attorno al 397. La preghiera conclusiva del Praeceptum, cioè, è in perfetto accordo con le opere di Agostino del periodo del presbiterato, mentre non sembra compatibile con l’ultima fase della vita dell’Ipponense, quando, a motivo della controversia pelagiana, pur affermando di essere sub gratia, non si riteneva mai esente dalla cupidigia della carne e quindi manifestava una certa preoccupazione, assente dalle parole di reg. 3. Se Agostino, divenuto nel 395 circa vescovo “ausiliare” di Valerio e poi dal 397 vescovo unico di Ippona, ha voluto con il Praeceptum supplire alla sua assenza dal monastero del giardino, la composizione di quest’opera si colloca verosimilmente in questo periodo, ossia nel 397. La Regularis Informatio, invece, si daterebbe al periodo compreso tra la composizione del Praeceptum, 397, e la Conferenza di Cartagine del 411, probabilmente poco dopo quest’ultima.

  • Wirkungsgeschichte

Il Praeceptum nel prologo fa capire che l’autore conosceva bene i propri interlocutori, per cui non ha neanche necessità di presentarsi. Si tratterebbe in altri termini di uno scritto di carattere privato, il quale sarebbe potuto benissimo non giungere fino a noi. La storia però, ha dimostrato il contrario.

Inoltre, anche se reg. 3 è rivolta a un gruppo di monaci, essa ha manifestato nel corso del tempo influssi profondi su diverse categorie di cristiani, sia chierici (inter alia i Canonici Regolari), sia laici.

Si può infatti affermare che non c’è in Agostino una teologia dogmatica che riguardi in modo specifico ed esclusivo la vita religiosa. Per lui i monaci si distinguono dagli altri cristiani solo sul piano pratico. Eppure, si potrebbe dire che tutta la struttura della sua dogmatica è monastica, nel senso che per lui è normale che qualunque cristiano sia religioso (cf. en. Ps. 131,6, sulla condivisione dei beni). In tal senso, Agostino è molto vicino a Basilio, le cui opere ascetiche non devono essere considerate come una legislazione monastica o un discorso rivolo a una ristretta categoria di fedeli. Il vescovo di Cesarea della seconda metà del IV secolo si proponeva invece una riforma di tutta la Chiesa, nell’obbedienza a Cristo attraverso i due pilastri della Scrittura e dei sacramenti. Basilio perciò designa i suoi monaci semplicemente con il nome di “cristiani”, in quanto unica è la Chiesa, la quale, pur nella sua articolazione è chiamata a realizzare in vangelo in pienezza e nella radicalità delle sue esigenze.[15]

Tornado al Praeceptum agostiniano, la sua osservanza da parte dei chierici non tradisce l’ideale o le finalità dell’autore del testo precettistico. Per quanto riguarda il monachesimo, infatti, Agostino aveva in qualche modo percepito che la vita monastica pura, senza incarico pastorale, rischiava di essere vissuta egoisticamente.[16] D’altra parte, i monaci dovevano assumere un incarico pastorale solo se chiamati dalla Chiesa. Una volta a capo della Chiesa, l’antico monaco doveva far conoscere e amare la vita dei monaci laici. Questa vita contemplativa non è una iners vacatio, da conservare gelosamente per sé, ma spinge all’impegno per gli altri. Anche i monaci chiamati al ministero pastorale corrono però il rischio di vivere egoisticamente, quando cercano il primo posto (praeesse) e non si occupano del bene altrui (prodesse), per il conseguimento del quale, tenuto conto delle circostanze, a volte occorre punire i colpevoli. Tutte queste osservazioni trovano conferma nel cap. 7 della Regula e in tanti altri testi agostiniani che raccontano circostanze concrete di vita dell’Ipponense (cf. inter alia epp. 21-22. 48; s. 46). Per Agostino la vita monastica non è fine a se stessa, ma ha un indubbia portata ecclesiale: l’anima unica di Cristo (cf. reg. 3, 1) ha una universalità che si oppone a qualsiasi ripiegamento intimistico su di sé.

Ciò emerge anche dall’ideale monastico percorso da S. Agostino, il quale, come osserva Trapè, fu un itinerario spirituale che può essere indicato con i nomi del suo itinerario geografico, cioè: Cartagine, Milano, Roma, Tagaste, Ippona.[17]

Infatti, a Cartagine scoprì – per così dire – i primi germi della vocazione, in seguito alla lettura dell’Ortensio di Cicerone.

A Milano venne a conoscenza del monachesimo. Ponticiano, suo corregionale, gli narrò la vita di Antonio e della moltitudine dei monaci che ne seguivano l’esempio, lo informò sull’esistenza di un monastero a Milano, e gli espose anche un caso straordinario capitatogli a Treviri, dove due soldati, in seguito alla lettura della vita di Antonio decisero improvvisamente di rinunciare al matrimonio e di consacrarsi al servizio di Dio. Dopo il racconto di Ponticiano si verificò la scena del giardino, che costituisce, com’è noto, l’esito del lungo percorso agostiniano di conversione (cf. conf. 8,12,30).

A Roma, pochi mesi dopo il battesimo, in seguito alla morte della madre Agostino studiò per circa un anno l’organizzazione monastica. Di essa egli mise in rilievo particolarmente l’esercizio della carità: «È alla carità soprattutto che si guarda: alla carità si adatta il vitto, alla carità il linguaggio, alla carità il vestire, alla carità l’aspetto. Ci si riunisce per tendere insieme ad una sola carità» (mor. 1,33,73)

A Tagaste, per tre anni, fece i primi esperimenti nella via del monachesimo: vendette i pochi beni che aveva, ne distribuì il ricavato ai poveri e insieme con alcuni amici, tra cui Alipio, Evodio e Adeodato, fuori della città, si dedicò ai digiuni, alla preghiera e allo studio.

A Ippona attuò definitivamente il suo proposito fondando il monastero dei laici e creando poi, divenuto vescovo, quello dei chierici.

All’inizio del presbiterato, nonostante fosse impegnato in molte attività pastorali, non volle rinunciare al suo proposito di essere religioso. Consapevole di ciò il vescovo Valerio gli donò un giardino presso la chiesa per edificare il monastero. La norma fondamentale di vita di quel monastero era quella d’imitare la primitiva comunità di Gerusalemme. Tutto sarebbe stato comune, e ad ognuno si doveva distribuire secondo il suo bisogno. Era un monastero di laici, ma non escludeva i sacerdoti. Almeno fin dal principio c’era un religioso sacerdote, cioè Agostino. Secondo Trapè fu proprio questo il monastero, che resterà l’espressione più alta e più pura del suo ideale, dove l’Ipponense unì per la prima volta alla vita religiosa il sacerdozio.

Nel 395-396 Agostino fu consacrato vescovo, dapprima ausiliare di Valerio, mentre poi, alla morte di questi, nel 397 restò solo alla guida della diocesi di Ippona. Allora si avvide che non gli era possibile continuare a stare nel monastero, se voleva che in esso continuasse il corso ordinario della vita religiosa quale egli la concepiva. Le continue visite e l’ospitalità che il vescovo non poteva negare a nessuno avrebbero reso la vita del monastero tutt’altro che monastica. Perciò decise di ritirarsi a vivere nell’episcopio con i suoi chierici (Sermo 355,2).

Nel diffondere e organizzare la vita monastica Agostino non si limitò solamente ai monasteri maschili; fondò anche monasteri di vita religiosa femminile. È celebre quello di Ippona al quale indirizzò due lettere (ep. 210 e 211)e del quale fu superiora sua sorella “vedova consacrata a Dio” e ne fecero parte alcune sue nipoti.

Se il Praeceptum ci permette di conoscere la forma di vita del monastero del giardino, e le ep. 210 e 211 quella dei monasteri femminili, i s. 355-356 del 426 ci fanno conoscere la vita del monasterium clericorum di Ippona. In s. 356,1 Agostino cita Act. 4,31-35, aggiungendo cioè al testo citato nella Regula il v. 31, in cui si parla dell’annunzio della Parola di Dio da parte degli apostoli in virtù dello Spirito santo: i membri del monasterium clericorum non sono solo chiamati a una vita monastica povera, ma anche a una dimensione missionaria e apostolica. Questo monastero rappresentava quindi un ritrovato di Agostino per poter continuare in qualche modo il suo ideale di vita monastica che si viveva nel monasterium virorum a Ippona o in monasteri simili ad esso. Secondo Trapè, Agostino continuò a guardare sempre con nostalgia all’esempio del monastero del giardino (cf. De opere monach. 29, 37).

Tuttavia, alla fine della Regula si legge: bono Christi odore de bona conversatione flagrantes (reg. 3, 8). Conversatio nel latino patristico significa specialmente genere di vita, modo di vivere. Questo può essere considerato un accenno, piccolo ma ricco di significato, al ministero pastorale presente all’interno del Praeceptum. È la vita santa del ministro, presbitero o laico che fosse, ad attirare le anime.[18]

In questo senso, l’esempio e la regola dell’episcopato di Sant’Agostino si basano su una spiritualità che, da un lato, si collega alla teologia comunionale della Chiesa antica, ma dall’altro sarebbe stata in grado di offrire anche per il futuro, vale a dire al tempo della riforma gregoriana, un programma adatto per il rinnovamento canonico e la comprensione di sé da parte soprattutto dei Canonici Regolari. È vero che Agostino e la sua comunità non sono Canonici Regolari, quanto piuttosto risultano ispirati da una preoccupazione primariamente monastica. Ciononostante, le circostanze storiche fecero sì che la riforma dell’Ordo canonicus attraverso l’osservanza della Regula agostiniana divenisse un efficace strumento per l’applicazione della riforma gregoriana nella Chiesa. A volte ci fu confusione tra l’Ordine canonicale e gli Eremitani, ma poi i Canonici Regolari si specificarono soprattutto per la cura animarum e si distanziarono dai monaci.[19]

I chierici che seguirono l’influsso normativo di Agostino adottarono la forma poi definita come Regula recepta, consistente nella prima frase dell’Ordo monasterii che precedeva il Praeceptus. Essa fu probabilmente introdotta da Ivo di Chartres (1040-1115), riformatore dei Canonici Regolari secondo l’Ordo antiquus, consistente per l’appunto nell’osservanza del solo Praeceptum con l’aggiunta della frase iniziale dell’Ordo monasterii, il quale nella sua interezza era considerato troppo rigoroso e antiquato. Questa Regula recepta, osservata dai Canonici Regolari è chiamata da Ivo e dai primi testimoni della tradizione manoscritta De vita clericorum.

  • Conclusione

Per concludere lasciamo la parola a Possidio di Calama, autore della Vita Augustini:

[Agostino] Lasciò alla Chiesa clero abbondante e monasteri di uomini e donne praticanti la continenza con i loro superiori […]. Dai suoi scritti risulta manifesto, per quanto è dato di vedere alla luce della verità, che quel vescovo caro e gradito a Dio visse in modo retto e integro nella fede speranza e carità della Chiesa cattolica; e ciò possono apprendere quelli che traggono giovamento dalla lettura di ciò ch’egli scrisse intorno alla divinità. Ma io credo che abbiano potuto trarre più profitto dal suo contatto quelli che lo poterono vedere e ascoltare quando di persona parlava in chiesa, e soprattutto quelli che ebbero pratica della sua vita quotidiana fra la gente.[20]

Possidio, che aveva vissuto con Agostino un’amicizia senza nubi per 40 anni ed era stato per 2- 3 anni membro del monastero dei chierici a Ippona, beneficiando della stima del maestro che l’aveva presto nominato vescovo di Calama (a 60 km da Ippona), nella sua Vita vuole sostenere l’autorità dell’amico e lo fa mostrando la profonda armonia esistente tra la vita e l’insegnamento dell’Ipponense. Nella descrizione del monastero del giardino, pertanto (cf. uita Aug. 5,1), Possidio insiste sul fatto che Agostino e la sua comunità cercavano di seguire la vita apostolica. Nel primo monastero agostiniano, infatti, non esisteva una regola scritta e l’unica “regola” era quella fissata dalla vita degli Apostoli, un esempio da seguire valido per tutti i fedeli, specialmente per quanto concerne la preghiera e la comunione dei beni. Di conseguenza, non ci sembra fantasioso ipotizzare che, nelle intenzioni di Agostino, la buona testimonianza offerta dal monastero del giardino avrebbe potuto convincere i preti d’Ippona a vivere la vita comune. Anche la pastorale ne avrebbe beneficiato, perché il monastero era una indubbia risorsa per fornire di sacerdoti istruiti sia Ippona sia le altre diocesi, favorendo la pace e l’unità della Chiesa. Analogamente il monastero vescovile, nel quale non è da escludere che ci fossero anche laici, sarebbe diventato un focolare di formazione e un vivaio dal quale attingere elementi per altre Chiese.[21]

Facendo un balzo da Possidio ai giorni nostri, anche se è un dato di fatto che gli scritti normativi del corpus Augustinianum siano serviti da riferimento per istituti religiosi spesso molto diversi tra loro, riteniamo che si resta fedeli all’autentico spirito dell’Ipponense nella misura in cui l’osservanza della Regula, pur nelle più varie forme ed espressioni concrete, è vissuta non individualisticamente ma con un ampio respiro ecclesiale, ut […] superemineat, quae permanet, caritas (Aug., reg. 3, 5).

Angelo Segneri, CRIC

Institutum Patristicum Augustinianum


[1] Cf. G. Vigini, Sant’Agostino. Dizionario delle opere, Trapani 2019, 218-232.

[2] L. Verheijen, La Regola di S. Agostino, 2, Verso un ideale di bellezza e di libertà, Palermo 1993, 24. 158. La struttura in cinque parti (prologo, prima parte fondativa, seconda parte applicativa, terza parte visione retrospettiva, epilogo), si può applicare anche al De sancta virginitate, un’opera del pieno periodo episcopale di Agostino.

[3] Cf. G. Vigini, Sant’Agostino, 232.

[4] Cf. N. Cipriani, Presentazione, in Sant’Agostino, La Regola, ed. N. Cipriani, Roma 2006, 8-9.

[5] Cf. T. Van Bavel, La Regola di Agostino d’Ippona, Palermo 1986, 19.

[6] Cf. soprattutto Sant’Agostino, La Regola, ed. N. Cipriani, Roma 2006 e L. Verheijen, La Regola di S. Agostino. Studi e ricerche, Palermo 1986 e Id., La Regola di S. Agostino, 2, Verso un ideale di bellezza e di libertà.

[7] Il sermo 205 è datato all’incirca al 415; è possibile rintracciare notevoli paralleli anche tra il Praeceptum e i s. 206-211, pronunciati anch’essi durante la Quaresima, e collocati tra la fine del V secolo e la morte di Agostino; cf. J. Anoz, Cronología de la producción agustiniana, in Augustinus 47 (2002), 280.

[8] In modo analogo D. Adrien Gréa (1828-1917), fondatore dei Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione, uomo di ispirazione sia agostiniana sia benedettina, afferma: «Noi dobbiamo amarci come i santi si amano nel cielo; noi dobbiamo avere gli uni per gli altri l’amore stesso che abbiamo per Gesù Cristo, poiché egli è in ciascuno di noi. La carità che ci unisce deve essere la stessa che unisce il Padre e il Figlio, cioè lo Spirito Santo. L’affetto che ci unisce è lo Spirito Santo che è stato sparso nelle nostre anime» (A. Gréa, Conférences, 9 novembre 1894, in La Voix du Père. Bulletin des C.R.I.C. 11 [1947], 83).

[9] Sull’importanza della ricerca della pace e dell’armonia come ideale agostiniano della vita religiosa, con riferimenti sia a reg. 3 sia a civ., cf. P.-P. Walraet, “Live Together in Peace on the Way to God”. The Rule of Augustine as a “Rule of Peace”, in Agustín de Hipona como Doctor Pacis: estudios sobre la paz en el mundo contemporáneo, edd. A. Dupont – E. Eguiarte Bendimez – C. Vilabona, Bogotà 2019, 235-264.

[10] Ciò porta a interrogarci su quale tipo di salterio usasse Agostino. Si possono riconoscere quattro strati diversi: una antica versione romana del salterio; ritocchi anteriori ad Agostino anch’essi di provenienza italica; due tipi di ritocchi successivi dovuti ad Agostino, dei quali i primi fatti sulla base dell’antico salterio africano (del tipo di quello di Cipriano), i secondi dovuti all’Ipponense in persona. In reg. 3, 2, legitis e scriptum est si riferiscono probabilmente al salterio agostiniano nello stato in cui si trovava all’epoca di redazione del Praeceptum.

[11] Cf. T. Van Bavel, La Regola di Agostino d’Ippona, 83.

[12] Cf. T. Van Bavel, La Regola di Agostino d’Ippona, 87. Secondo me dietro questa osservazione di Van Bavel c’è il rischio di concepire la vita religiosa in chiave idealista, ossia come una “proiezione”, uno “sforzo” umano verso la perfezione, mentre essa è in primo luogo una grazia divina.

[13] Cf. T. Van Bavel, La Regola di Agostino d’Ippona, 111.

[14] In termini contemporanei, il praepositus, potrebbe essere il “superiore locale”, mentre “il presbitero che ha cura di voi” forse sarebbe un’autorità superiore, ossia un sacerdote incaricato dal vescovo di prendersi cura di tutti i monasteri della diocesi, corrispondente quindi all’attuale superiore maggiore; cf. C. Egger, L’attualità della Regola di Sant’Agostino, Vercelli 1996.

[15] Così si esprime a tal proposito J. Gribomont: «L’Asceticon non conosce alcun termine tecnico per designare il “religioso”; l’aggettivo “monastico” è espressamente respinto (Rf 3, 7); le parole “fratello” o “asceta” sono rarissime; l’epiteto che conviene è “cristiano”, e ricorre abitualmente, anche in casi assai curiosi, come “l’abito che conviene al cristiano” (Rf 22)» (J. Gribomont, Obéissance et Evangile selon Saint Basile le Grand, in La Vie Spirituelle, Supplément 21 (1952), 197.

[16] Si consideri quanto osserva ancora D. Adrien Gréa a proposito della finalità dell’istituto dei Canonici Regolari, da lui restaurato in Francia dopo le soppressioni della rivoluzione francese e del periodo napoleonico: «Suo scopo è quello di riportare la vita monastica al centro del presbiterio nelle campagne, di inserirlo nel ministero locale e pastorale» (A. Gréa, A mons. Nouvel, 11 aprile 1886, in Dom Gréa attraverso le lettere. Raccolta di alcune lettere scritte ai confratelli, amici e parenti in epoche diverse, ed. T. Battisti, Montichiari 2018, 149).

[17] Cf. A. Trapè, Introduzione, in S. Agostino, La Regola, ed. A. Trapè, Milano 1971 – Roma 19963, 7-49.

[18] Cf. C. Egger, L’attualità della Regola di Sant’Agostino, Vercelli 1996.

[19] Cf. A. Redtenbacher, Zukunft aus dem Erbe. Charisma und Spiritualität der Augustiner-Chorherren, Innsbruck – Wien 20072, 111-112. 128. 152-155.

[20] Possid., uita Aug. 31,8-10.

[21] Cf. J.-M. Girard, Agostino: vita comune e pastorale, Relazione tenuta al Congresso dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, Assisi 13 ottobre 2016.