La vita consacrata nella Chiesa-comunione del Vaticano II
1. Osservazioni preliminari
Prima di immergerci nella lettura dei documenti del Vaticano II è bene soffermarci su alcune linee guida che ci orienteranno nella interpretazione dei documenti conciliari. Infatti, i testi come le parole possono assumere significati diversi se inseriti in contesti diversi, che vengono posti come “griglie di lettura” in riferimento a quanto letto o interpretato. Per esempio, se una persona rivolgendomi la parola dice: “ho letto il vostro libro sulla Chiesa; si tratta di un bel libro!”, almeno due sono le interpretazioni che una tale affermazione può assumere: come un rimprovero e una critica o come osservazione positiva a seconda che la persona viene da me considerata benevola o meno nei miei riguardi. L’arte dei diversi significati possibili in una comunicazione scritta o orale va sotto la denominazione di “ermeneutica” o interpretazione dei testi e parole: come orientarsi per non travisare quanto la persona ha voluto comunicare? Anche nella interpretazione della Scrittura va applicata questa metodologia. Infatti essendo questa vera parola umana (quella di Isaia, di Geremia, di Matteo o di Paolo) è esposta a differenti interpretazioni.
Si tratta certamente di Parola di Dio, Parola che ha un significato, quello di Dio, ma che perviene a noi nella e per mezzo della parola umana dell’ Autore ispirato. Per cogliere il vero contenuto di quello che Dio ha voluto dire per mezzo del linguaggio umano è necessario vagliare, tra quelli possibili, il vero significato della parola umana. Come arrivare a questo sicuro significato della parola umana – cioè il senso letterale della Scrittura (ciò che l’autore sacro ha voluto dire da parte di Dio) per arrivare al senso spirituale, quello che Dio ha voluto comunicare per mezzo dell’autore ispirato? Questo è il compito specifico della Tradizione (con la “T” maiuscola). Ha una funzione interpretativa della Scrittura: svelare progressivamente il senso vero, umano e divino della Scrittura. Questa trasmissione, interpretativa non materiale, ha come legge fondamentale quella della continuità. Continuità non significa ripetizione meccanica lungo l’arco dei secoli, una specie di fotocopia, ma svelamento progressivo del senso pieno della Scrittura. Si tratta di un arricchimento costante paragonabile alla germinazione del grano fino alla spiga o allo sviluppo del bambino fino all’età adulta: il soggetto è sempre lo stesso – elemento permanente – ma in crescita, elemento di novità. Questo il motivo per cui la Tradizione viene, per esempio, descritta come fedeltà creatrice, con cui si vogliono esprimere due aspetti profondamente uniti: permanenza e novità.
Anche l’interpretazione del Vaticano II, compito fondamentale della Tradizione del XX secolo, non può sottrarsi, come sottolineato da Benedetto XVI[1], a questa ermeneutica della continuità. A questa modalità di ricezione del Vaticano II si contrappone quella che lo stesso Benedetto XVI chiama ermeneutica della rottura.[2] Questa considera il Vaticano II come una novità senza sufficiente relazione con il passato, anzi a volte in opposizione ad esso. Prendiamo un esempio chiaro che è anche lo specifico dei canonici vittoriani: “amare e servire la Chiesa”. Tutta la Tradizione sostiene la necessità di appartenere alla Chiesa per essere salvati, secondo l’adagio di Origene e di S. Cipriano: nessuna salvezza fuori dalla Chiesa. Questa affermazione la si trova, nella sua sostanza, almeno tre volte, nei testi conciliari. Oggi molti sono del pare che “questo sia un modo di parlare superato”. Si sostiene infatti che pur restando la Chiesa luogo di salvezza per i battezzati, gli altri si salvano senza la Chiesa. Così facendo si creerebbe una rottura tra quanto si andava affermando prima del Vaticano II: una sola via per la salvezza; e quanto si va sostenendo oggi: vi sono diverse vie per la salvezza. Secondo il metodo interpretativo dell’ermeneutica della continuità le cose stanno diversamente.
“Nessuno si salva al di fuori della Chiesa” resta sempre un dato di fede: ci si salva solo se membro del Corpo del Cristo che è la Chiesa. Dottrina saldamente fondata sugli scritti paolini. Oggi l’interrogativo è: come intendere l’essere incorporati in Cristo, cosa significa appartenere alla Chiesa che è il suo Corpo. Il Vaticano II parla di piena incorporazione in Cristo (per opera del Vangelo e dei sacramenti), ma non esclude altri tipi di incorporazione, certamente imperfetti, ma reali e salvifici per coloro che, senza loro colpa, non hanno accesso al Vangelo e ai sacramenti (per esempio il battesimo di desiderio “accanto” al battesimo sacramento). Per l’interpretazione dei testi del Vaticano II concernenti l’argomento che si sta trattando – la vita consacrata – si seguirà la metodologia della continuità creatrice con la Tradizione che precede il concilio stesso.[3] La vita consacrata ha una sua continuità “logica” all’interno della Tradizione e che nel Vaticano II perviene a nuove chiarificazioni. Due saranno quindi le piste di riflessione: la logica nella Tradizione e i suoi sviluppi nel tempo presente. Cercando di capire cosa oggi si debba intendere all’interno del carisma canonicale per fedeltà creatrice.
2. La “logica” o l’identità propria della vita consacrata
Due sono i testi principali del Vaticano II in cui si parla della vita consacrata. Il primo, quello nella costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen Gentium. Testo fondamentale anche per l’interpretazione degli altri documenti. Il secondo, nel decreto sulla vita consacrata, Perfectae caritatis, come ulteriore approfondimento di quanto presente nella Lumen Gentium. Già dallo schema stesso della costituzione Lumen Gentium si può desumere qualcosa di molto importante. Quattro sono le parti principale che lo compongono:
I. la Chiesa: nella sua identità permanente (cap. 1: il mistero della Chiesa) e nel suo pellegrinare sulla terra (cap. 2: il popolo di Dio).
II. La grazia del Cristo come vita della Chiesa (cap. 3: coloro che servono questa grazia predicando, celebrando e guidando la comunità: i ministri; cap. 4: coloro ai quali questa grazia è offerta: i fedeli).
III. La finalità della vita della grazia (cap. 5: la vocazione universale alla santità).
IV. La fine del mondo riscattato dal Cristo: il mondo futuro (cap. 7: indole escatologica della nostra vocazione;
cap. 8: la vergine Maria, icona della vocazione umana riscattata dal Cristo).
Per il Vaticano II, all’interno della visione del mistero cristiano, la vita consacrata è da ritenersi un modo particolare di vivere la grazia di Cristo per pervenire alla santità. La differenza dei consacrati dagli altri non la si deve cercare né nell’origine della grazia (il Cristo per mezzo della Parola e dei sacramenti) né nella finalità (la santità), uguali per tutti, ma nel modo concreto di vivere questi doni divini e così perseguire il fine specifico proprio della vita consacrata. Questo modo di considerare il mistero del Popolo di Dio è fortemente significativo. Gli uomini e le donne non si differenziano tra loro secondo la modalità di recezione dei doni di Dio (il giorno più grande della vita di un papa – diceva Pio XI – è quello del battesimo), né per il fine ultimo che la grazia ci offre (la beatitudine eterna), ma la straordinaria varietà di modi di realizzazione del nostro conformarci a Cristo nella santità. Questo, secondo il dato costante della Tradizione, significa essere Chiesa-comunione: la perfetta unità (per tutti la stessa Parola di Dio e gli stessi sacramenti) in un’ampia diversità di modi di viverla. Nella vita consacrata, l’unità è garantita dal comune riferimento ad una regola, e la diversità nel viverla in contesti differenziati.
Nel clero diocesano invece l’unità è data dal contenuto dottrinale e la diversità dalle varie forme di pastorale. In breve, la Chiesa-comunione, per il Vaticano II è la strada per realizzare uno stretto legame, armonioso e fruttuoso tra unità e diversità. Per un ulteriore approfondimento. Viene preferito il termine comunione a quello di unione. Perché? Qui il Vaticano II riprende una concezione classica. Con il termine Comunione, infatti, si designa una comunità unita nel vincolo della carità. Nel caso si tratti di una mandria di mucche o di un gruppo azionario per una società commerciale non si ricorrerà al termine comunione, perché l’unità di una mandria deriva dal loro appartenere al regno animale come quella di un gruppo azionario dalla ricerca del profitto. La comunità-comunione tipo ha come sorgente modello e riferimento ultimo la Trinità. La tre persone divine formano una comunione perfetta perché è la comunione del Padre e del Figlio nell’amore comune che li unisce, lo Spirito Santo. La Chiesa-comunione altro non è che la partecipazione alla comunione trinitaria. La caratteristica fondamentale della vita consacrata: i consacrati sono uomini e donne che si impegnano a vivere questa comunione trinitaria nella comunità di appartenenza con una spiccata dimensione ecclesiale, cioè luoghi dove la Parola di Dio è ascoltata, celebrata e vissuta nell’amore e in attività specifiche. Il decreto Perfectae Caritatis ripropone già dal titolo una simile impostazione: unica vocazione dei consacrati è la ricerca della perfetta carità – vocazione di ogni uomo –.
Ciò che distingue i consacrati è una certa forma di radicalità. Questa radicalità espressa con i tre voti classici di obbedienza, povertà e castità, ad imitazione del Cristo, è propria di coloro che vogliono più profondamente partecipare alle ricchezze della vita trinitaria. si badi bene: la vita consacrata nella Chiesa non fonda una specie di aristocrazia che dall’alto guarda i “semplici battezzati”! Nella vita consacrata si trova qualche “nobile signore” o “nobile signora” che brillano per particolare splendore – si pensi a S. Teresa del Bambino Gesù che a soli 25 anni aveva colpito nel centro! – ma la maggior parte dei consacrati è costituita da uomini e donne che, consapevoli della loro povertà e della chiamata comune alla santità, si impegnano a seguire Cristo sulla via integrale del Vangelo[4]. La differenza quindi non è data dal fine, la santità, – quasi godessero di una più ampia garanzia per la beatitudine – ma dalla strada per raggiungerlo. La diminuzione del numero dei consacrati oggi è per la Chiesa-comunione segno di grande indigenza. È prova, tra le altre, di una diminuzione di presa di coscienza nel Popolo di Dio della povertà personale e della grandezza della chiamata alla santità. Oggi si sente ripetere: “tutto è buono, tutto è gentile!” e certamente “tutti andremo in paradiso!” Tali contenuti non sono una scoperta del Vaticano II ma si trovano nel tessuto profondo della coscienza ecclesiale. Tuttavia nell’insegnamento del concilio viene ad essere sottolineata una nota caratteristica della Tradizione.
3. Il nuovo contributo del Vaticano II sulla vita consacrata
Affermare che la Chiesa è la comunità della carità ricevuta, vissuta e fruttuosa, equivale a dire che nella comunità cristiana il valore profondo e determinante di ogni stato di vita, sia laico che clericale o religioso è dato dalla carità. Davanti a Dio vale più essere un’umile madre di famiglia, misconosciuta da tutti, ma che vive nell’amore, che un papa pieno di sé. Anche ciò che viene definito stato di vita “oggettivo” può avere una sua concreta importanza – per esempio essere papa – ma per la salvezza determinante è lo stato “soggettivo”, cioè la qualità della carità personale. Il vaticano II ha decisamente posto l’accento – come è proprio di una Chiesa-carità – sull’aspetto “soggettivo” della vita cristiana. Mentre prima del Concilio – per tre secoli e a causa della lotta anti-protestante – si insisteva sulla struttura gerarchica della Chiesa contestata dai nostri fratelli protestanti. Senza nulla negare del dato di fede il Vaticano II ne ha ampliato l’orizzonte: la Chiesa è la comunità della carità, e là dove vi è la carità, là c’è la Chiesa, anche se in situazioni di grande povertà – basta pensare al periodo delle persecuzioni con la gerarchia decimata –: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
Unica la ragion d’essere dei consacrati: prima di ogni attività pastorale è loro chiesto di formare delle comunità scuole di carità, e loro primario obiettivo, al di là del loro specifico carisma (pastorale, scolastico, ospedaliero…), è d’essere testimoni della fecondità soprattutto spirituale che emana da un cuore di uomo o donna trasformato dalla carità. In un’epoca come l’attuale, in cui il “fare” si impone con i suoi criteri di attivismo e di efficientismo, anche nella Chiesa, la presenza di consacrati nella comunità cristiana deve dare testimonianza del prevalere dell’essere sul fare, valore primario di ogni vivere cristiano. La carità è benigna, non si vanta, non si gonfia, non cerca il proprio interesse e si compiace della verità (1 Co 13, 4s). Il vero valore della vita consacrata si oppone alla mentalità della nostra epoca: “siete inutili…”, mi diceva una volta una persona con fare sconsolato. Cosa del tutto vera se si pone come criterio l’efficientismo della nostra epoca. Ma secondo i criteri evangelici, la vita consacrata è talmente indispensabile alla vita di tutto il Popolo di Dio che, dove non vi sono dei consacrati, diceva il Papa Giovanni-Paolo II, la vita della Chiesa non è pienamente realizzata[5].
La penosa situazione della vita consacrata nelle nostre diocesi ( nell’arco di dieci anni in Francia i religiosi di vita apostolica forse non ci saranno più) costituisce un grave danno per le chiese locali: la carità si raffredda, manca di testimoni, di scuole (i conventi e le abbazie), e il suo primario impegno che consiste nell’amore verso Dio e il prossimo nella preghiera di lode viene a mancare. La Chiesa può fare a meno (certo non vivere abitualmente) della gerarchia, ma non della carità. Nella Chiesa-comunione, cioè nella Chiesa-carità, viene dato un grande rilievo alla vita consacrata. Questo il motivo per cui tutte le famiglie religiose dopo il concilio sono state invitate a rivedere le loro costituzioni: si doveva nei testi costitutivi mettere in grande evidenza la centralità della carità, liberarla da altre sovrastrutture, soprattutto da una troppo marcata insistenza su tale o tal’altro obiettivo specifico. Fondare una Congregazione per l’animazione delle scuole di ragazzi è certamente cosa buona, ma solo nella misura in cui fa crescere i membri della Congregazione nella carità, non ne è un costitutivo assoluto. Nella Chiesa-comunione l’assoluto della vita consacrata sta nell’essere testimoni con la vita della forza trasformante della carità del Cristo. Tanto che nel caso in cui l’attività specifica venisse per un motivo o per un altro a perdere la sua attualità, il senso profondo della vocazione dei membri della Congregazione non ne soffrirebbe. Nella esortazione post-sinodale, dopo il sinodo sulla vita consacrata del 1994, Giovanni-Paolo II rivolgendosi ai religiosi e alle religiose le cui congregazioni, a causa della forte diminuzione delle vocazioni, sono in via di estinzione e rischiano di perdere le loro specifiche attività, così si esprime: “la sola cosa che il Signore vuole da voi, che restiate fedeli”[6].
Conclusione
La visione di una Chiesa-comunione non riguarda solo la vita consacrata. Identificando la Chiesa con la carità, il concilio ha inteso richiamare tutti i cristiani a ciò che è fondamentale per la vita cristiana: l’amore. La vita cristiana si fonda sul battesimo. Questo sacramento non è un dono tra gli altri del Signore, ma il dono dell’esistenza stessa. Per mezzo di questo sacramento infatti passiamo dal nulla all’esistenza. Ogni altro sacramento, ogni altra grazia, ogni altro carisma, il sacramento stesso per eccellenza l’Eucaristia, si innesta sulla radice battesimale perché dia frutti specifici. Il sacramento del matrimonio perché la grazia battesimale si esprima in una vita di carità quale quella di essere sposi e genitori; il sacramento dell’ordine perché la grazia battesimale sia vissuta nella carità di amici dello Sposo, il Cristo, per le nozze con l’umanità; la carità pastorale. Ogni vocazione particolare si fonda sul battesimo, sulla vita battesimale concreta e viva. Sono realizzazioni particolari dell’unica carità, espressione perfetta del vivere cristiano, o semplicemente del vivere. La concezione della Chiesa-comunione, senza mettere in forse la diversità e complementarietà delle vocazioni nella Chiesa, ne sottolinea invece la profonda unità e prodigiosa diversità. La vita consacrata, nella sua unità e prodigiosa diversità, è un’epifania nel cuore della Chiesa del suo mistero, cuore del Cristo, sorgente che irradia amore, in una sola parola: lo Spirito Santo.
Unità nella carità che precede ogni diversità di attività in cui si esprime. Stiamo in guardia: ogni diversità senza l’unità porta allo scontro, alla rivalità e alla scomparsa. La sola unità di comunione è sorgente unica di feconda diversità. Un giubileo, quale stiamo vivendo, porta con sé una gioia ben precisa: nonostante le nostre infedeltà, i flussi e riflussi della storia, la malizia degli uomini, il Signore ha conservato questo focolare di carità: l’abbazia, la congregazione, il movimento canonicale. Il fatto di esserci ancora ci dice che al di là delle vicissitudini della storia, la grazia di Dio ha sempre saputo trovare nel passato la giusta risposta che si attendeva; i santi, noti e meno noti, costituiscono la trama di questa storia, e il rendimento di grazie del giubileo ci restituisce a questo cammino storico con l’intento di continuarlo. Il Signore rimane sempre fedele; un giubileo non è un nostalgico guardare al passato, ma un attingervi degli insegnamenti nella continuità per portare oggi frutti novelli; un giubileo è una straordinaria manifestazione di fedeltà creatrice. Fr. Benoît-Dominique de la Soujoele, op(Fribourg, 2009)Traduzione : p. Tarquinio Battisti cric, Roma, 2010
[1] Benedetto XVI, discorso alla Curia romana, 22 dicembre 2005, Doc. catho n° 2350 del 15 gennaio 2006, p. 59-60. [2] Ibid. [3] I più sono concordi nel sostenere che la “crisi” che ha colpito il mondo dei consacrati dopo il Vaticano II sia dovuta a una interpretazione del concilio in rottura con il passato. [4] S. Agostino, che è un convertito, esperimenta un profondo bisogno aiuto. Una della più significative intuizioni della sua regola. [5] Giovanni-Paolo II, messaggio per la giornata mondiale per le vocazioni dell’11 febbraio 1987, Documentation catholique n° 1937 del 5 aprile 1987, p. 344; confrontare anche l’Esortazione Vita consacrata del 25 marzo 1996, n° 32 e 48, Documentation catholique 1996, p. 344 e 358. [6] Ibid. Vita consacrata, n° 63