Don Adriano Gréa Una spiritualità nel solco della tradizione
1. CONTESTO STORICO CULTURALE del GREA
Educato nel clima romantico della prima metà del secolo diciannovesimo, si può dire che il Gréa sia stato portato, quasi naturalmente, a guardare al passato cristiano della Francia con interesse e simpatia. Durante gli anni dei suoi studi a Parigi, lo troviamo già fortemente orientato verso il mondo cristiano antico e medioevale. Non fu lo studio del diritto che lo impegnò soprattutto, quanto quello della Patrologia e della storia ecclesiastica. Il Benoît ci informa che in questi anni il Gréa lesse tutta la storia della chiesa del Rohrbacher, appena uscita dalle stampe e che riuscì a procurarsi in seguito ad una piccola eredità; lesse i volumi editi della patrologia del Migne e tutta la storia dei concili del Labbe. Si appassionò per le Institutions Liturgiques di don Guéranger. I corsi alla scuola delle carte e la tesi sugli arcidiaconi rivelano bene quale direzione avessero preso i suoi interessi culturali. Le opere del Rohrbacher e del Guéranger non erano un esempio di oggettività storica e di senso critico. Pur nella diversità degli argomenti trattati, esse si proponevano tuttavia il medesimo scopo: lottare contro le correnti gallicane, intessendo l’apologia del papato e della liturgia di Roma. L’analisi storica vi era alterata e strumentalizzata in vista della dimostrazione della tesi: tesi del primato e dell’infallibilità del papa, del papato come fonte di libertà e civiltà. Tesi della superiorità della liturgia romana contrapposta a quella gallicana, accusata di tendenze eretiche e gianseniste.
E siccome era il presente ad essere messo sotto accusa, sia l’uno che l’altro autore, guardavano al passato come all’epoca d’oro del papato e della liturgia. Il passato diventava l’esemplare dell’autentica cristianità e del genuino spirito liturgico. Non si può passare sotto silenzio l’incidenza che le lezioni dell’Ozanam dovettero avere sulla formazione del Gréa. L’Ozanam era uno specialista di storia medioevale. Questi, temperando lo spirito romantico proprio del suo tempo con un costante e minuto lavoro sulle fonti, oppose al facile volterianesimo che infestava l’ambiente scientifico, un’indagine acuta, nella quale l’ardore apologetico, che lo accompagnava, illuminava e riscaldava la verità senza tradirla. Lo stesso amore per il Medioevo lo troviamo anche nel Montalembert, che tanto influsso ebbe nei “cercles catholiques” di Parigi frequentati dal giovane Gréa. Non si deve dimenticare che a Roma nel 1856 il Gréa ebbe occasione di incontrarsi frequentemente con l’archeologo De Rossi. Il Gréa si formò dunque in un ambiente dove l’attaccamento alla Chiesa si confondeva con l’esaltazione del passato. Per il Gréa gli anni di Parigi furono anche quelli dei suoi studi teologici. Non seguì però corsi speciali. Si deve dire che in teologia fu un autodidatta. Studiò su testi fondamentali: la Sacra Scrittura, i Padri antichi e S. Tommaso. Il Gréa, quindi, non appartiene a nessuna scuola teologica particolare, costituendo egli quasi una scuola a sé. Questo prolungato contatto del Gréa con gli antichi autori cristiani, se da una parte arricchì la sua riflessione teologica di contenuti che erano andati perduti e che sembravano difficilmente ricuperabili dalla teologia contemporanea, dall’altra ebbe come risultato di rendere forse troppo univoca la direzione dei suoi interessi culturali e spirituali. Il passato, cioè, fu da lui ritenuto come il solo depositario di ciò che era stato vero e grande nella storia della civiltà e del cristianesimo. Il Gréa non ebbe abbastanza senso storico per capire che in una concezione cristiana, la storia deve essere considerata non solo come svolgimento, ma soprattutto come sviluppo e progresso effettivo, perché “storia di salvezza” che si attua in un crescendo continuo.
Il passato costituì per il Gréa un vertice dal quale il presente era disgraziatamente decaduto. Tale visione pessimistica della società moderna caratterizza un po’ tutti i suoi studi. Si può quindi essere d’accordo con il Broutin quando del Gréa afferma: “a leggerlo lo si direbbe un profeta del passato, che vede nella sua contemplazione dei testi e dei canoni antichi la figura ideale della Chiesa e che, nella sua ardente devozione, fatta d’ammirazione oltre che di ricordi storici, cerca e trova una sintesi che non tutti possono condividere”; e con Wittman quando dice: “dom Gréa è un uomo del tredicesimo secolo che Dio ha riservato per il diciannovesimo”. Non si deve inoltre perdere di vista che l’ammirazione del Gréa per l’epoca medioevale, era, in fin dei conti, perfettamente giustificata dall’innegabile contributo che il Medioevo apportò alla creazione della cultura e della civiltà dell’Europa in generale e della Francia in particolare. E questo appariva al Gréa tanto più evidente, in quanto, la Rivoluzione del 1789 che aveva voluto tagliare i ponti con tutto il passato, stava allora producendo gli amari frutti del liberalismo e del laicismo. Non troviamo così nessuna difficoltà a capire perché il Gréa, allorché le circostanze della sua vita e del suo ministero sacerdotale lo posero di fronte alla necessità di dare una risposta a certi problemi e a certi bisogni spirituali del suo tempo, si sia messo quasi naturalmente ad interrogare il passato.
Nella sua opera: “origines de l’Etat: ses relations avec la religion et l’Eglise” (pubblicata come appendice I° alla seconda edizione di De L’Eglise et de sa Divine Constitution, Paris, 1907) sono presenti le sue tendenze ultramontaniste. La sua dottrina è in linea con i trattati del suo tempo, i quali dovevano confrontarsi con il “Sillabo” e l’enciclica “Quanta cura” per aver la norma dell’ortodossia nella spinosa questione dei rapporti fra Chiesa e Stato. Stando a quanto sopra detto è possibile, credo, affermare che il pensiero del Gréa, pur condizionato dal suo tempo, è tuttavia ricco di contenuto, di originalità e di felici intuizioni, che oggi si è in grado di apprezzare maggiormente, in quanto molte di esse sono entrate nel patrimonio teologico del pensiero contemporaneo.
2. LA SPIRITUALITA’
del Gréa nel solco della TRADIZIONE Il Gréa non conosce e non predica altra spiritualità che quella della Chiesa. E come per la Chiesa, così per il Gréa, al centro di tutto sta Gesù detto il Cristo. La sua spiritualità è alla base di tutto il suo operare, ne costituisce il retroterra naturale per un’autentica interpretazione, lo informa di un suo carattere distintivo e lo riveste di una sua propria grandezza. Nel Gréa teologia e spiritualità si compenetrano, richiamandosi l’una all’altra. Il soffermarsi alla semplice considerazione delle forme esteriori, senza dubbio di sapore antico, costituirebbe un grave errore di prospettiva interpretativa, in quanto significherebbe disgiungere l’uomo dell’interiorità e della contemplazione, qual era il Gréa, da quello dell’azione. L’opera del Gréa, come d’altronde quelle dei suoi predecessori, non può essere capita che facendo un passo indietro nel tempo, nel suo tempo.
Anche se si possono avere delle riserve (è facile sorridere per le sue citazioni approssimative, per le referenze imprecise, le allusioni storiche troppo generiche, per il suo tono un po’ accattivante, ci si può trovare ricalcitranti di fronte alle rudi osservanze monastiche) ciò, tuttavia, nulla toglie al suo lavoro di artigiano fedele, uno dei massimi animatori della vita religiosa nella chiesa del XIX secolo. Per l’esposizione del contenuto della spiritualità più che parlare si cercherà di lasciar parlare il Gréa stesso attraverso i suoi scritti, in modo da non correre il rischio, sempre possibile, di travisare più che interpretare il suo pensiero. Questo non impedisce, di scegliere una linea di personale presentazione che, partendo dalla Chiesa, Sposa dell’Agnello e Madre delle anime, raggiunga il Cristo, suo Sposo, e che da Questi, quasi come effetto a cascata, tutto della vita e dell’attività dei singoli e dei religiosi, venga ad essere informato e trasformato, così da ricomporre il tutto in una visione unitaria di contenuto e di significato.3. La DEVOZIONE alla CHIESAIl canonico Giraud, vicario generale di Moulins, che ha conosciuto don Gréa da vicino, a S. Claude dove soggiornò per circa quindici giorni, poi a Moulins nel 1874 e più tardi, al momento delle grandi prove, a Sept-Fons e a casa di Mons. Penon, vescovo di Moulins, ha scritto: “In don Gréa ho sempre ammirato, l’uomo di Chiesa, meglio dire della Chiesa”. L’espressione è eccellente.
Uomo di Chiesa, in quanto don Gréa si dedicò al servizio della chiesa; uomo della chiesa, non solo in quanto gli appartiene, come ogni sacerdote, come ogni religioso, ma in quanto tutto riconduceva alla chiesa, tutto considerava alla sua luce. Fu l’occupazione permanente del suo pensare, l’oggetto fisso della sua tenerezza, il centro della sua vita spirituale. Nel suo trattato sulla Chiesa concludendo la prefazione così si esprime: “Abbiamo intrapreso questo lavoro a gloria della Santa Chiesa; è verso questa, Sposa dell’Agnello e Madre delle anime, che noi professiamo il più ardente amore”. Questo testo lo si può comparare con un altro presente in una lettera con contenuti del tutto diversi. In questa, di colpo, senza legame con quanto precede, senza neppure completare la frase, aggiunge: “Amare la Chiesa”. In questo grido si trova racchiuso tutto il suo cuore. Dom Gréa è l’uomo di un libro, quello sulla chiesa, intorno al quale lavorò per trent’anni, che solo al termine della sua vita ristampò e completò; l’uomo di una sola idea, che questo libro inserisce in una luce al tempo stesso mistica e dogmatica; l’uomo della Chiesa, un grande contemplativo della chiesa. “La chiesa è forse semplicemente una società da cui gli uomini possono derivare il proprio utile in risposta ai bisogni della loro natura? O forse, secondo una diversa prospettiva, uno tra gli innumerevoli doni che Dio ha riversato sul mondo? O, non piuttosto, un mistero più profondo si cela in questo sacro nome della chiesa? Tutto ci invita a pensare che la soluzione debba essere trovata in questa direzione. Infatti, il mistero della chiesa è il mistero stesso del Cristo.
La Chiesa è Cristo stesso, è la pienezza, il compimento del Cristo, suo corpo e suo sviluppo reale e mistico: è Cristo totale e compiuto. In questo senso la chiesa occupa, tra le opere di Dio, lo stesso posto del Cristo; il Cristo e la chiesa costituiscono un’unica opera di Dio. Nell’operare divino quale posto si deve attribuire a Cristo e alla Chiesa? Suprema opera di Dio, di dignità infinita, manifestazione suprema di Dio per la rivelazione della sua misericordia, anch’essa infinita, questi i due poli attraverso i quali il mistero del Cristo corona e porta a compimento tutti i disegni divini e parimenti primo compiacimento di Dio nelle sue opere, primo decreto da cui tutto il resto dipende, principio di ogni azione e tipo primordiale al quale ogni casa si rapporta…Tale mistero, opera sublime e infinitamente perfetta, è necessariamente in sé unica…Dio non può incarnarsi e immolarsi che una sola volta, e per mezzo di un’unica oblazione compie per l’eternità ogni santificazione e ‘il mistero di Dio’”. Tuttavia riesce, nella profondità dei suoi secreti, a trovare l’arte divina di moltiplicare ciò che resta unico, di propagare nei secoli e nel mondo l’incarnazione e la redenzione, di distribuirli e profonderli smisuratamente sulle strade dell’umanità, di infonderli ogni giorno ed ogni istante nel cuore di tutti gli uomini. E per mezzo delle sorgenti sacramentali: l’eucarestia, il battesimo e la penitenza si diffondono; questo Dio incarnato, il Cristo Gesù, si propaga e vive in tutti coloro che non si oppongono al dono celeste, e si estende e si moltiplica continuamente senza dividersi, sempre uno e sempre forza unitiva delle moltitudini in Lui.
Il mistero, quindi, stesso della chiesa è questo divino propagarsi del Cristo che sviluppandosi raggiunge il suo compimento e la sua pienezza. Il Gréa mette in connessione il mistero della chiesa con i misteri della Grazia e della Trinità. Il mistero della divina Agapè è il mistero stesso della vita soprannaturale: un mistero di pienezza e di comunione, di dono totale e reciproco, in un movimento di espansione e di unità verso la molteplicità e di ritorno della molteplicità verso l’unità. “Così questo trattato [sulla chiesa] avrà la sua naturale divisione. Dio è il capo del Cristo; il Cristo è il capo della Chiesa universale; il vescovo lo è della chiesa particolare. Due grandi soggetti da studiare ed in cui sarà diviso questo lavoro. La Chiesa universale e la chiesa particolare; e al di sopra come tipo e origine, che regola tutti i movimenti inferiori, l’eterna società del Padre e del Figlio, da cui la Chiesa procede, in cui ha la sua forma e il suo esemplare a cui è associata e verso cui risale sempre come a suo centro, sua beatitudine, suo compimento”. Nella sua concezione della vita soprannaturale il Gréa spiega che per ritornare nel seno del Padre, noi siamo in gestazione, in travaglio, nel seno della Madre. E’ la società della Tre Persone che chiama, assume e corona la società umana per mezzo della grazia nella gloria. ” La Santa Chiesa cattolica è il principio” e la ragion d’essere “di tutte le cose”.
Del suo sacro nome ne è piena la storia;come i primi secoli, a partire dall’origine del mondo, ne sono stati una preparazione, così quelli che seguiranno, fino alla fine di tutto, saranno pregni del suo passaggio: tutti li abbraccia, e unica ad ogni evento il suo provvidenziale significato conferisce. Da nessuno di questi circoscritta, come avviene per ogni cosa, non si ferma quaggiù. Al di là dei secoli, l’eternità l’attende per consumarla nel riposo. E là conduce ogni speranza del genere umano, che a lei si affida. Arca inviolabile, custode di questo sacro deposito, naviga sui flutti delle età e degli avvenimenti, a volte agitata e sollevata fino alle nubi dalle grandi acque del diluvio, che con il loro impeto, altro non fanno, che spingerla sempre più in alto e più vicino al cielo. Sola raggiungerà l’eternità, e nulla di quanto nasce nel tempo si salva e vive per l’eternità al di fuori di essa”. La devozione alla Chiesa è quindi la devozione al Cristo, considerato nel suo Corpo Mistico. Si dirà, in seguito, come questa vada ad innestarsi sulla devozione a Cristo, considerato nella sua umanità e nella sua divinità.
La spiritualità del Gréa, infatti, è essenzialmente cristocentrica.
3.1 Il SACERDOZIO e la GERARCHIA ECCLESIASTICA
Se la Chiesa è il Cristo continuato, questi si continua soprattutto nel sacerdozio.”C’è un unico sacerdote, Gesù Cristo. Il sacerdote è la specie sacramentale di Gesù Cristo sacerdote, come il pane e il vino, sono specie sacramentale di Gesù Cristo vittima…L’ordinazione che riceviamo con l’imposizione delle mani da parte del vescovo, è l’impegno nel tempo della nostra ordinazione eterna nel Signore. Vi rendete, ora, conto di quale cosa santa si tratti e come nulla di umano vi si debba mescolare. Come il pane e il vino, specie sacramentali della santa eucaristia, devono essere frumento purissimo e vino genuino, così nel sacerdote nulla di propriamente umano deve entrarvi. Tutto deve essere puro. Nessuna vanagloria, nessun compiacimento, che dico? Il sacerdote è una cosa santa. Non si tratta di carriera nel mondo, di impegni o lavori, dove siamo noi stessi ad agire, nel sacerdozio non agiamo noi” Il Gréa non parla solo della grandezza del sacerdozio, ma anche della santità per colui che vi è chiamato:”Per essere sacerdoti di Gesù Cristo occorre una grande santità. Gesù Cristo è mediatore di Dio presso gli uomini e degli uomini presso Dio. Discende da Dio, rivestito della sostanza, della santità e della maestà di Dio; per andare verso gli uomini e ricondurli a Dio si carica delle debolezze degli uomini.
Questi è il sacerdote”. Da quanto detto è facile dedurre quale sia la tremenda responsabilità che ne deriva per il sacerdote, nonché la profonda necessità della preghiera, della mortificazione, del desiderio di compiere la sola volontà di Dio, della rottura con tutto quanto sa di effimero e di restrittivo: – “la disgrazia più grande per i chierici e soprattutto per noi, chiamati alla perfezione del clericato, consiste nel condurre una vita mediocre” – , come anche l’amore per il sacerdozio, il rispetto delicato e vigile per l’ordinazione sacerdotale e per il carattere che questa conferisce. Il sacerdozio è, nello stesso tempo, uno e gerarchico:”Come da Adamo e dopo di lui nel genere umano che da questi procede vi era una gerarchia e un ordine costituito, così c’è una gerarchia della chiesa che procede dal Cristo e in questo propagarsi del Cristo, si estende fino a interessare le ramificazioni più periferiche della nuova umanità, suo corpo mistico, nonché della nuova creazione, su cui estende il suo dominio”. E ancora: “l’ordine è la riduzione del numero all’unità. Ogni opera di Dio, per sua necessità assoluta e metafisica, ne porta in sé il carattere…Da ciò deriva che ogni opera di Dio è essenzialmente, per conformità al suo pensiero che le concepisce nell’unità e in forza dell’essere che loro dona secondo questo tipo, riconducibile all’unità e costituita nell’ordine”.
A seguire alcuni brevi accenni per dare l’idea di questa gerarchia ecclesiastica. Idea, che l’autore della ‘Chiesa’ ha espresso con una sublimità e una forza altamente significative e che mettono in risalto il suo alto senso dell’oggetto in esame e il suo profondo amore per la chiesa, come sopra detto. Il Gréa in questo si ispira in modo particolare a S. Ignazio di Antiochia. Tanto che nel suo trattato sulla ‘Chiesa’, non pago delle numerose citazioni, ha messo insieme diversi testi di S. Ignazio “che trattano del mistero della gerarchia”. La dottrina e le espressioni stesse di Ignazio spesso si trovano nella predicazione, nelle conferenze e nel linguaggio del Gréa. Le sue riflessioni prendono avvio da: “Dio capo del Cristo. Cristo capo della Chiesa”. E continuando nella sua analisi riguardo alla gerarchia così si eprime: “Cristo si è dato un vicario, il papa, suo strumento e rappresentante, che per sempre in suo nome e in suo potere esercita il governo sulla chiesa universale…unico capo della chiesa con Gesù Cristo…
Vicario inseparabile di Gesù Cristo, unico pastore e capo con Cristo Gesù che, con Cristo è l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega del mistero della chiesa….Il vescovo è il capo della chiesa particolare, la quale procede dalla chiesa universale e come questa, in cui sussistono tutte le chiesa particolari, procede dalla società divina di Dio e del suo Cristo….Il vescovo è capo della chiesa particolare in comunione con il papa, vicario di Gesù Cristo, da lui i vescovi ricevono il loro mandato…Parimenti il vescovo non potendo da solo sopperire a tutte le necessità spirituali del suo popolo, ha dei collaboratori, i sacerdoti…Ma il sacerdozio del presbitero, essendo la stesso del vescovo, è sacerdozio comunicato, che discende dall’episcopato, istituito e fondato nell’episcopato e che, quindi, colloca il presbitero in uno stato di essenziale e necessaria dipendenza dal vescovo…Dopo i sacerdoti vengono i ministri propriamente detti, i diaconi e i ministri minori: i suddiaconi e, nella chiesa latina, gli accoliti, gli esorcisti, i lettori, i portieri”. Riguardo alla chiesa particolare e al suo presbiterio aggiunge: sempre uguale a se stessa nello specifico del mistero gerarchico, di cui fa parte e ne costituisce l’ultima espressione, la chiesa particolare nel suo insieme si richiama al vescovo e al collegio dei sacerdoti, costituiti in unità.
Per cui è sempre valida la bella analogia del martire S. Ignazio: il presbiterio è quella lira sacra, armonicamente costituita, con cui lo Spirito Santo incessantemente canta Cristo Gesù; e, mentre nella diversità delle funzioni dei suoi membri, ciascun sacerdote emette, se così è dato esprimersi, nella diversità delle corde di questa mistica lira, un suono diverso e particolare, tuttavia, la divina melodia, non ne subisce interruzione alcuna, né il susseguirsi delle epoche ne scalfisce l’unità. La diversità dei ministeri, tuttavia, non deve mai farci perdere di vista l’unità di fondo in cui il tutto viene a ricomporsi: “Le gerarchie procedono l’una dall’altra: la chiesa particolare dalla chiesa universale; la chiesa universale, in cui sussistono tutte le chiesa particolari, procede dalla società divina di Dio e del suo Cristo…così sempre ed ovunque in questo corpo mistico di Gesù Cristo si compie quanto detto a proposito di questa unione: ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum (Gv. 17,23)”. E questo perché: “Lo Spirito Santo è inseparabile dal mistero delle relazioni del Padre e del Figlio ovunque queste si manifestino: il soffio del Padre e del Figlio, che è nella chiesa universale, la pervade e la vivifica, si diffonde fino alla chiesa particolare. E’ l’anima della sua gerarchia, il sigillo della sua comunione.
Questa è il sigillo che unisce il vescovo al suo popolo, cioè ancora e sempre l’unione di Gesù Cristo e della sua chiesa, e, andando a ritroso, fino alle profondità divine dove sono nascoste le origini sacre di questi misteri, l’unione del Padre e del Figlio”.”Quale sublimità di mistero! Il Figlio è nel Padre, in quanto suo principio; il Padre è nel Figlio, in quanto suo splendore consustanziale. Così la chiesa è nel Cristo, in quanto suo principio, e il Cristo è nella chiesa, in quanto sua pienezza. Così come, la chiesa particolare è nel suo vescovo, in quanto suo principio e il vescovo è nella sua chiesa, in quanto sua pienezza, suo splendore, irradiazione del suo sacerdozio e della sua fecondità”. Per il Gréa cosa è il sacerdozio? In un’insieme di riflessioni ai religiosi sugli ordini sacri, del dicembre 1895 a St-Antoine, così si esprime: “Vi è un unico sacerdote: Gesù Cristo. Come il pane e il vino sono le specie sacramentali di Gesù Cristo vittima, così il sacerdote è la specie sacramentale di Gesù Cristo sacerdote… Il sacerdozio non è stato istituito direttamente per la santificazione del sacerdote stesso, ma per il popolo. Grandvaud, che per lungo tempo era stato direttore di seminari maggiori, mi diceva: quando un giovane mi chiede di diventare sacerdote per santificarsi, rispondo negativamente, ma affermativamente, invece, se mi domanda di diventare religioso. Lo stato religioso è uno stato istituito direttamente per la santificazione personale, ma non così il sacerdozio, che è uno stato di santità acquisito, come l’episcopato è uno stato di perfezione”.
3.2 I CANONICI REGOLARI
Questo sacerdozio e questa gerarchia don Gréa, in modo del tutto particolare, lo vede e l’ama nei Canonici Regolari.”E’ nel cenacolo che Nostro Signore, istituendo il sacerdozio, ha per sempre dato alla sua chiesa la vita di comunità per i sacerdoti e i leviti. Vita di comunità che, invece di individualità operanti secondo un proprio modo di vedere, fa di noi un solo corpo, operante in unità. ” Tra il sacerdozio e lo stato religioso don Gréa vi scopre un’ affinità essenziale e di origine. “Nostro Signore, unico e sommo sacerdote, ha scelto di perpetuarsi nei sacerdoti e nei chierici, magistrati del popolo cristiano, con il compito di portare Gesù Cristo ai fedeli. Tra i due momenti il Gréa instaura una profonda e quasi naturale affinità. Infatti, in una allocuzione in occasione della prima messa di D. Henri, del 29 giugno 1895 a St-Antoine, così si esprime: “Tra la rinunzia religiosa e il sacerdozio vi è una stretta, quasi naturale, affinità, infatti se già in quanto religioso non ti appartieni, meno ancora ora [poiché sacerdote]. La perfezione religiosa, con espressione filosofica, è quanto si esige ed è rivendicato dal sacerdozio”.
La stessa profonda affinità viene dallo stesso instaurata tra l’ordine canonicale e il vescovo nella chiesa particolare: “L’ordine canonicale, scriveva a don Raux, 16 ottobre 1915, sarà veramente tale, solo se diocesano ed episcopale”. Sempre allo stesso, in una lettera del 21 dicembre 1912, ripeteva: “Sappiate che la restaurazione canonicale, non rientra tra gli Ordini Religiosi, che come tali fanno riferimento alla chiesa universale e sono disgiunti dalle gerarchie locali, ma è un santificarsi nella vita liturgica e di penitenza, con la pratica dei consigli evangelici, offerto e aperto al clero delle chiese dipendenti dall’episcopato; sappiate che questa nobile opera è voluta da Dio, quale risposta alle necessità del popolo e alle aspirazioni conscie ed inconscie di molti sacerdoti. Questa è stata e sarà sempre la nostra vocazione, non se ne discute…”. E continua affermando che, in un certo qual senso, ” lo stato religioso ha avuto inizio con gli Apostoli e nei secoli è continuato nei loro successori. E’ per salvaguardare la perfezione sacerdotale che il Gréa si è dedicato alla restaurazione dei Canonici Regolari: “Spesso ci domandano: ad quid venisti? Qual è il vostro specifico nel mondo? Quale lo scopo del vostro istituto. Ah! Noi non siamo nuovi, ma antichi. Noi pratichiamo la vita apostolica, noi viviamo quanto gli antichi concili hanno emanato”.
3.3 LA PREGHIERA LITURGICA
Come l’istituto dei Canonici Regolari, così anche le osservanze, sottolinea il Gréa, “hanno un fondo di tradizione che ci viene dagli Apostoli”. E subito aggiunge, “L’opera che ci accingiamo ad intraprendere non è un’opera particolare, quale, per esempio il riscatto dei prigionieri, la cura dei malati, l’assistenza agli orfani. Sono delle opere buone, sante, lodevoli, necessarie. Ma, al di sopra di queste opere, c’è la penitenza e la preghiera. Questo è ciò che noi vogliamo fare, questo è il nostro spirito: è lo spirito degli Apostoli”. La preghiera dei canonici regolari è soprattutto quella liturgica. “Vi sono tre forme di preghiera. La prima è quella individuale che ciascuno fa nel proprio intimo…la seconda è quella in gruppo, quando, cioè, i fedeli si riuniscono per pregare…ma al di sopra di tutte si trova la preghiera della chiesa. La chiesa prega incessantemente…essa offre la preghiera per eccellenza, il sacrificio eucaristico, di cui l’ufficio canonico è una continuazione”. Tra i doveri ai quali “i Canonici Regolari possono dedicarsi in riferimento alla loro vocazione” dom Gréa indica soprattutto: “per la dignità e l’eccellenza, il culto divino, riguardo al quale S. Tommaso ha detto, a proposito dei canonici regolari: proprie ordinantur ad cultum divinum”.
Infatti “la preghiera liturgica è il più eccellente omaggio che l’uomo può rendere a Dio sulla terra; ciò che lo diminuisce è una disgrazia pubblica, e la sua soppressione è l’ultimo castigo con cui Dio minaccia le città: ‘farò cessare, in questo luogo, la voce dello Sposo e della Sposa, il solenne colloquio di Gesù Cristo e della Chiesa”. “La preghiera liturgica è la preghiera della Chiesa: è la voce con cui lo Sposo si rivolge alla Sposa. Ha una componente misteriosa per cui viene ad essere, qui sulla terra, l’inizio di quella che è l’unica attività degli eletti”. “La preghiera liturgica è, quindi, l’omaggio più alto che in terra l’uomo possa rendere a Dio; è da considerarsi disgrazia pubblica ogni qual cosa ne offuschi la dignità” In cosa consiste questo colloquio? “Dio, dice don Gréa, si canta da solo, nel segreto del proprio essere un inno eterno, che altro non è che l’espressione delle sue perfezioni nel Verbo e nel soffio del suo Amore. Quando nella sua bontà e sapienza, ha creato l’universo, ha prodotto come un’eco a questo canto eterno. Il suo canto faceva, così, irruzione nel tempo, riecheggiando nell’armonia delle sue opere e alla creatura razionale, fatta a sua immagine, affidava il compito di presiederlo…solo un istante interrotto con il peccato, [questo canto] è stato elevato, nel Cristo e nella chiesa, ad una dignità ed eccellenza incomparabilmente superiori a quella della prima condizione.
Il Cristo è il Figlio di Dio: unitosi alla sua chiesa, la introduce nell’eterna società del Padre e del Figlio; dandole, così, non più di riprodurre, quasi eco lontana, quel cantico che è Dio, ma sostanzialmente associandovela, la compenetra e l’anima totalmente del suo Spirito”. Una tale nozione della liturgia spiega l’amore del Gréa per essa. Si può dire che la sua vita, e quella che pensava fa vivere nell’istituto da lui fondato, altro non era che la vita liturgica elevata alla sua più alta espressione: “[ l’Uffico Divino] consumazione e fine di tutte le cose sulla terra” “L’ufficio canonico, nella sua cadenza in ore liturgiche, è il nutrimento preparato dallo Spirito Santo per tutto il genere umano, scriveva il Gréa ad primo gruppo dei suoi figli che si apprestavano a partire per il Perù. A voi spetta il compito di far risuonare la santa salmodia in quei luoghi fino ad ora condannati al silenzio dello Sposo e della Sposa”. Per rendersi conto di questo è sufficiente richiamare alla memoria la bellezza degli uffici a Saint-Claude e a Saint-Antoine. Si è colpiti dalla freschezza e dalla semplicità del canto, dall’insieme armonioso con cui si svolgono le cerimonie. Il Gréa, inoltre, si rallegrava immensamente al pensiero dello sviluppo che la liturgia raggiungeva in paesi lontani per mezzo di nuove fondazioni. E spingendo lo sguardo al di là della su famiglia gioiva per quanto avveniva per la liturgia e con la liturgia. In un suo sermone per una presa d’abito, nel carmelo di Lons-le-Saunier (1887), esaltava la gioia della carmelitana: la gioia di appartenere a Cristo. Ugualmente applaudiva alle conquiste della liturgia nelle parrocchie.
Al rev.do Bouvet scriveva, il 10 gennaio 1877: “Rimango entusiasta per quello che mi dite. In quello che voi fate ho la conferma di quanto da me sempre pensato, che cioè si deve restituire l’ufficio al popolo cristiano e il popolo cristiano alle nobili pratiche della chiesa. Quanti sforzi per inventarsi devozioni secondarie, ed effimere, ecc.. quanto sarebbe meglio, invece, impegnarle in questa direzione”. La parola del Gréa era la più persuasiva iniziazione alla liturgia, sia nei continui corsi che dava ai suoi religiosi, sia negli incontri familiari, che spesso avevano come oggetto questioni liturgiche. Poco prima di morire, don Chautard, abate di Sept-Fons, così si rivolgeva a don Casimir: “la sua figura raggiante, diceva, nella liturgia diventava una espressione vivente dei suoi sentimenti profondi, e gli slanci mistici di molto oltrepassavano quanto i manuali contenevano.” Un tale fervore lo si ritrova nel suo libro La Sainte liturgie, dove si ode, unitamente allo storico curioso e sagace e il teologo che spicca il volo, “l’asceta per il quale tutto deve condurre all’amore verso Nostro Signore Gesù Cristo”. In questa sua opera il Gréa mette in risalto, tra l’altro, la centralità della Messa.
E l’Eucaristia viene detta il centro e la consumazione del mistero della comunione dei santi (p. 36): “La Messa è il momento principale di tutto l’Ufficio Divino e da cui tutto deriva. La sua forza, penetrando in ogni movimento della vita della Chiesa, raggiunge le ore canoniche, intimamente le unisce a sé e le vivifica del suo essere memoria”. “E’ proprio all’altare che in tutta la sua grandezza è vissuto il mistero della Chiesa, cioè il mistero della sua gerarchia: il sacerdote, nel quale il Cristo stesso si immola e si dona; i ministri, che dall’altare si portano verso il popolo; e il popolo, che unendosi alla Vittima per mezzo del sacerdote, diviene in quella e per quella una nuova umanità”. Il mistero dell’unità del sacerdozio del Cristo comunicato al vescovo, che: “dall’episcopato scende al presbiterato” (p.41), viene magnificamente espresso nella concelebrazione. Il Gréa, inoltre, è preoccupato della partecipazione del popolo alla liturgia. Partecipazione che chiama necessaria (p.50) affinché la celebrazione liturgica abbia pienezza di significato:”La Santa Liturgia è l’agire comune di tutta la Chiesa , cioè del sacerdote e del popolo, tanto che il mistero di questa unità vi è sempre realmente presente con la forza indistruttibile della comunione dei Santi”. L’Ufficio Divino, come ogni Parola di Dio proclamata nella Liturgia, è per il popolo ed in vista del popolo: “è il banchetto preparato dalla bontà e dalla sapienza divina per il popolo cristiano: il Verbo è nutrimento, questo Verbo, doppiamente incarnato nella parola e nella carne adorabile, nell’uno e nell’altro suo stato, nutre, consola e fortifica le anime”.
Esso non è fatto per essere letto nel segreto di una stanza, “ma per essere pubblicamente celebrato in chiesa, alla presenza dei fedeli, tenuto conto della loro devozione o della libertà che le occupazioni della vita loro concedono” “è la preghiera pubblica della chiesa; culto pubblico offerto a Dio dal popolo cristiano”. La sua stessa forma dimostra che non è stato istituito come preghiera privata, “ma come orazione pubblica dove il canto anima la parola”. Per il Gréa l’Ufficio e la Messa , che ne costituisce la parte principale, non possono,quindi, essere celebrati senza che tutta la Chiesa vi si associ e sia, in modo misterioso, presente (p. 51). Voleva che tutta la spiritualità dei suoi religiosi fosse incentrata sulla liturgia e se ne nutrisse continuamente. Che lo scandire del tempo assumesse tutta la sua importanza da quello della liturgia: ” [il tempo] misura delle opere di Dio al di fuori di se stesso”, con le feste che lo scandiscono, permette un contatto vitale con i misteri della Redenzione che nella liturgia ci sono riproposti come eventi attuali. Il Gréa ha delle pagine bellissime sul Battesimo, sul mistero della Pasqua (p.59-63), sul senso della domenica che la rende presente ogni settimana (p. 67-68): ” durante la Quaresima la Chiesa, come una madre, conosce i dolori del parto e prepara, nei catecumeni, la posterità dei figli di Dio, che desiderano nascere nel santo battesimo; e nel sopraggiungere della notte di Pasqua, apre questo fonte inesauribile e celebra con trasporto incomparabile questa festa unica per il cielo e la terra”.
E per sottolineare la centralità del Mistero Pasquale aggiunge: “Le feste di Pasqua sono dunque, ogni anno, come il centro dell’azione della grazia sul mondo. In questi giorni tutti i misteri della Chiesa e della Salvezza per gli uomini si uniscono, compenetrano e l’opera di Dio vi è presente”, “così il cielo si rivela alla terra e la festa solenne che è in seno a Dio, la festa della Chiesa trionfante, che Egli associa alla sua beatitudine, si irradia nel tempo e diffonde i suoi splendori sulla Chiesa militante in terra”. Il Gréa non aveva troppa simpatia per le devozioni moderne.
3.4 LA PENITENZA E LO SPIRITO DI SACRIFICIO
La mistica liturgica secondo il Gréa non può sostenersi senza una rude ascesi, uno spirito eroico, votato al sacrificio. Questi voleva restaurare la tradizione dei digiuni e astinenze monastiche. “Da questo mistero liturgico, diceva, primo fra tutti i misteri, non può essere disgiunto, perché sia perfettamente santo, il mistero della penitenza, ministero dell’Agnello immolato, per mezzo del quale a Lui vengono unite le singole membra, come anche il popolo, per il quale (la penitenza) costituisce una forma di continua intercessione” Preghiera e penitenza, quindi, sono profondamente interconnesse. “Ecco chi sono i Canonici Regolari – diceva – in una chiacchierata spirituale del 29 settembre 1893: sono uomini che nel mondo vogliono innalzare e sostenere lo stendardo della preghiera e della penitenza”. Questo modo di esprimersi mutuato dal linguaggio militare quadra alla perfezione con il suo carattere intrepido: “Dobbiamo nuovamente innalzare lo stendardo della penitenza, scriveva nel 1891, lo stendardo di un regolare digiuno, penitenza principale e sociale della chiesa, che alle ordinarie mortificazioni sta come la preghiera liturgica, nella liturgia, alle altre devozioni. Ciò facendo camminiamo in direzione opposta a quanto richiesto dallo spirito del secolo. Amate il digiuno. Apprezzatelo. I santi padri ne fanno un grande elogio, perché eleva l’anima, purifica e santifica.
Ma tale sarà, solo se amato”. Come la liturgia, anche la penitenza, per il Gréa assume un carattere sociale. Una tale evangelica abnegazione è ciò che specifica e caratterizza la sua spiritualità, e come molti altri fondatori, è vissuto, pur soffrendo, per la chiesa e nella prova ha conservato la fede nel futuro. In ciò si rifaceva alla tradizione degli Apostoli, che “unitamente alla preghiera, hanno lasciato nel tesoro della chiesa, la tradizione del digiuno e dell’astinenza”, continuate, poi, nell’antichità cristiana e nel Medioevo: “Noi, ciò facendo, seguiamo quanto già stabilito da S. Agostino. Il nostro digiuno, ricordatevelo, non è privato, ma ecclesiale. Digiuniamo per la chiesa, perché ne siamo i rappresentanti, la nostra penitenza è quella della chiesa. Perché la chiesa digiuna? Perché è madre e come nel battesimo rigenera le anime degli infedeli, nella penitenza quelle dei peccatori. Per questo continuamente si adopera a fare penitenza. Senza la penitenza la chiesa soccombe e il clero si debilita. Ogni santo, solo se grande penitente, è , parimenti, riuscito a lasciare un duraturo ricordo di sé e compiere qualcosa di grande. Guardate quello che è stato capace di fare il Curato d’Ars. Nessuno è mai riuscito a mettere in piedi una parrocchia senza fare penitenza.
Coraggio, figli miei, [pergant igitur], pratichiamo con gioia la penitenza che eleva l’anima. Non consideriamola come un peso da trascinarsi, ma come delle ali per volare in cielo. Seguiamo l’esempio della maggior parte delle comunità dei canonici regolari del Medioevo. Tutte le case dei canonici regolari in mia conoscenza lo riprendono”. E in una sua lettera alla signora Boissard, riprendendo lo stesso tema e riferendosi alla vita cristiana, così si esprime: “Il mondo non ha forse bisogno di penitenza…il mistero del cristianesimo non è forse un grande esorcismo?…il principe di questo mondo sarà scacciato – ha detto Nostro Signore – solo con la penitenza e il digiuno. La vita cristiana va sempre più limitandosi ai soli precetti della legge naturale, quando essa, invece, deve essere il mistero della croce riproposto da quelle membra che hanno come capo il Crocifisso. I sacerdoti non possono predicare la penitenza, se prima, pubblicamente, non si sforzano di essere austeri, poveri e penitenti.”Dalla stessa penna esce quasi un grido e una preghiera: “Si semina molto e si raccoglie poco. Perché? Perché queste azioni non sono radicate nella penitenza. La chiesa soffre di un male e questo male non è la mancanza di attività, ma l’affievolirsi dello spirito di penitenza e di preghiera”. Don Gréa voleva che i suoi figli praticassero, anche se nella prudenza, lo zelo per il digiuno: “Amate tutti il digiuno, anche se non lo potete praticare. Se lo si ama, si trova sempre un modo per osservarlo.
Coraggio, proviamoci. Sforziamoci di pervenirvi. I vostri superiori vigileranno per mantenervi entro i limiti della prudenza. Lo si amerà solo se se ne scoprirà la forza espiatrice, santificatrice e la ricompensa ad esso connessa. Solo se vissuto con gioia lo si potrà, con facilità, anche praticare”. Contemporaneamente, in una conferenza del 24 luglio 1895, faceva presente la necessità di educare il popolo stesso: “La gente non sa nulla della grande legge del digiuno, dobbiamo spiegaglielo…non sanno che il digiuno è, con la preghiera, il grande esorcismo che scaccia il demonio. Il digiuno quaresimale e delle veglie, è il digiuno della chiesa, come l’ufficio è la preghiera della chiesa. Quando digiuniamo, non siamo soli: La chiesa intera digiuna con noi”. Al digiuno è necessario far seguire l’astinenza: “Non è per comodità che è stata istituita la quaresima. – Ecco come rispose mons. de Segur a delle persone che gli dicevano: non è divertente confessarsi – Ma non ci si confessa per divertimento – Il digiuno non è stato istituito per comodità, ma come penitenza…nella nostra società non si trova più neppure un briciolo di cristianesimo. Vuole godere. Noi, invece, vogliamo conservare la tradizione che i nostri padri ci hanno tramandato”. A seguito di quanto detto assume grande rilevanza l’osservanza della regola, le umiliazioni dell’obbedienza, le privazioni della povertà, i sacrifici della castità, il disagio della vita comune, la lotta contro gli assalti di una personalità invasiva e gli eccessi dell’amor proprio.Il Gréa, inoltre, auspica che nella Chiesa si torni ad un genuino spirito di povertà e ad una comunione di vita e di beni fra il clero.
Egli, infatti, considera il peculio e il regime beneficiario la causa principale della secolarizzazione e della laicizzazione dei titoli e dei beni ecclesiastici. Povertà evangelica e vita comune viste quali condizioni essenziali per la credibilità della chiesa stessa e l’efficacia della sua azione missionaria nel mondo. Se è necessario un ritorno alla mortificazione, non si deve mai dimenticare che questa si fonda e deriva da una disposizione interiore: “Immaginare d’ essere generosi non è difficile. Ma se scendiamo nel profondo del nostro cuore, ci accorgiamo che la nostra natura vi si oppone con delle richieste che in un primo momento appaiono innocenti, ma che in seguito si rendono sempre più esigenti. L’amor proprio, che va alla ricerca di se stesso, vuol farla da padrone, si insinua dappertutto…l’umiltà è il mezzo migliore per estirparlo”. E sempre riguardo allo stesso argomento così continua: “L’io deve essere mortificato, umiliato, deve lavorare. Vorrebbe riposarsi. E’ pigro. Scuotiamolo. L’amor proprio, è il mondo in noi che lotta contro l’amore di Gesù. In noi coabitano due amori, due spiriti: l’amor proprio e l’amore a Gesù. Il libero arbitrio si trova continuamente tirato da una parte e dall’altra.
Chi seguirà? Questi due amori non possono convivere, perché l’uno viva è necessario che l’altro muoia. Quanto a noi, tutto è deciso: noi abbiamo deciso, meglio, Dio ha deciso per noi. Il nostri libero arbitrio si è deciso per l’amore di Dio”. Altrove, con rimembranze bibliche e con spiccato senso di realismo, aggiunge: “Non c’è amore vero e fermo se non nel sacrificio. Lavoriamo con coraggio, sopportiamo generosamente il peso del giorno e del caldo, cioè delle tentazioni del demonio e delle ristrettezze della natura. Fin dal mattino il sole ci colpisce con i suoi infuocati raggi, ma il demonio del giorno è più terribile ancora. E’ allora che bisogna resistere alle passioni che ha acceso nel cuore dell’uomo. Senza dimenticare, tuttavia, l’altro demonio quello della sera, quello della morte. A torto si crede che, una volta giunti al termine della vita, non ci si debba più preoccupare degli attacchi dei nemici. Le passioni sembra che tacciano. Stiamo all’erta…tutta la nostra vita deve essere una penitenza”. Ecco cosa dice il Gréa, riportando un testo, spesso citato, di S. Ignazio, riferendosi alla Comunità dei Canonici Regolari riuniti in coro “per il più importante atto della loro vita”: il culto divino: “Non si identifica questa a quella lira divina, celebrata dal martire S. Ignazio, le cui corde, tese e tra loro armonizzate, vibrano sotto il soffio dello Spirito Santo?
Infatti, come la corda materiale non può vibrare senza che, in certo qual modo, nell’esser tesa, subisca violenza, così il religioso deve nella mortificazione della vita trovare la forza della propria voce, affinché penetri il cielo e l’esercizio della penitenza deve sostenere il ministero della preghiera per la salvezza del mondo”. In una lettera scritta nell’approssimarsi della morte di un giovane confratello “pronto per l’eternità” , pieno di sincera fiducia e cristiana speranza, scriveva: “per raggiungere questa luce è necessario passare attraverso l’ombra della morte. Non dobbiamo temere, quoniam tu mecum es. Nostro Signore e Salvatore è passato per questa ombra per liberarla dai timori. Lui stesso, al momento dell’agonia, ci viene incontro e ce la fa attraversare appoggiati sul suo cuore e sostenuti dalla sua presenza. Cari figli, cari figli in Roma, non temete la morte. Accoglietela, quando vi visiterà, perché è la visita di Dio, visita di misericordia e d’amore per ogni religioso, per ogni anima che ama e che è rimasta fedele. Per voi prego. Con voi queste lagrime verso, unite al rendimento di grazie e alla speranza, rendimento di grazie per la santa certezza che questa santa morte di un mostro fratello ci ispira”.
3.5 IL SEVIZIO DELLE ANIME E LA VITA INTERIORE
Se lo spirito dei Canonici Regolari è “lo spirito della chiesa”, “lo spirito degli apostoli, spiritum fletus et precum” , se i canonici regolari “sono uomini che vogliono innalzare e sostenere lo stendardo della preghiera e della penitenza nel mondo”, la preghiera e la penitenza “che sono diminuiti dovunque”, la loro opera, allora, non ha “un carattere particolare. Noi facciamo penitenza per la chiesa come chierici, diceva dom Gréa, perché è compito del clero. La nostra preghiera la facciamo per la chiesa”, “per il popolo”. Senza ciò “non si possono salvare le anime”. Salvare le anime. Dopo il servizio di Dio, nella vocazione dei Canonici Regolari, viene il servizio delle anime, “il servizio pastorale presso il popolo”. In una conferenza, del 20 dicembre 1893, diceva. “a volte i santi hanno sentito il bisogno di riposarsi, ma Dio non lo ha loro concesso…ci riposeremo in cielo. Quaggiù, con Dio, occupiamoci della salvezza degli uomini. Dobbiamo avere uno zelo apostolico. Gesù nella stalla di Bethleem, vedeva le tenebre dell’idolatria ricoprire il mondo intero..Egli è venuto sulla terra per salvare…questo zelo noi dobbiamo con Lui condividere”.Il Gréa, questo zelo lo aveva e per questo, fin dall’inizio della fondazione della sua congregazione, sognava la Cina, fondava case in Canada, Perù, in Francia, Svizzera, Inghilterra, Italia. E aggiungeva: “Guardate quanto lavoro rimane ancora da fare. Non si è ancora pervenuti al centro dell’Asia.
Queste immense popolazioni sono ancora mussulmane e buddiste, adorano vecchi idoli di pietra…ugualmente in India…in Africa…nell’isola di Giava, in quella di Sumatra…nessuno se ne preoccupa. E ancora, l’America del sud, dove sono arrivati i padri di don Bosco: quante conversioni da fare. Non basta, però, convertire. Bisogna fondare delle chiese. Queste popolazioni devono avere dei vescovi e delle cattedrali, il loro culto divino di giorno e di notte per opera dei canonici regolari e dei monaci…Ma veniamo più vicino a noi, in Europa, centro della chiesa. Quale immenso susseguirsi di scismi e di eresie…e ancora più vicino: in Francia, dove in alcune parrocchie non si battezzano più i bambini. Perché? Perché non risuona più la lode di Dio, perché la preghiera e la penitenza sono scomparse. Siate zelanti, abbiate in voi lo spirito degli Apostoli”. Un solo spirito pervade quest’uomo, quello degli Apostoli, quello del Cristo: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc. 12,49) e suo campo d’azione è il mondo che giace nelle tenebre dell’errore e del silenzio, in cui, sua unica preoccupazione, possa di nuovo tornare a risuonare il canto della Sposa in perfetta sintonia con quello dello Sposo.
E’ di somma importanza per il Gréa che l’apostolato non faccia dimenticare la penitenza e la preghiera: “Quando cantate l’ufficio delle letture, preoccupatevi di non essere soli. Sopra ogni piccolo campanile in territorio francese, ci dovrebbe essere una campana che chiama il sacerdote alla preghiera. Quale forza di ripercussione è presente in questi mezzi!…In Europa la vita cristiana vi è stata portata dalle chiese e dai monasteri dove veniva cantato l’ufficio della notte e del giorno. Andate a vedere in Inghilterra, in Scozia, in Irlanda soprattutto…così deve essere in ogni dove. L’Europa sarebbe presto ritornata ad essere cristiana se Nostro Signore non fosse rimasto solo nei tabernacoli e se la salmodia avesse continuato a risuonare intorno a Lui”. Il Gréa non si dimenticava di pregare e di far pregare per le vocazioni: “Le vocazioni ci sono, è la fedeltà, sono le occasioni a mancare…oggi a pranzo, ho mangiato una mela, dentro si trovavano otto semi, otto piccoli semi. Supponete che l’albero che la portava ne abbia prodotte altre quattrocento con otto semi ciascuna. Quanti alberi di mele ne sarebbero potuti nascere! Ma la circostanza non si verificò. E’ vero che ogni seme è in potenza a diventare albero, ma solo se verrà seminato, altrimenti finirà sotto i piedi e verrà calpestato. Così accade per le vocazioni. Dio le semina a piene mani: exiit qui seminat.
Alcune cadono ai bordi delle strade e sono portate via degli uccelli del cielo, altre vengono calpestate, solo poche cadono sulla buona terra. Pregate il buon Dio che mandi vocazioni e occasioni, perché il numero dei servi di Dio si accresca e che, in ogni parte del mondo e della Francia, si sviluppi come una grande luce, luce della salmodia che quale fiamma si elevi verso il cielo”. Nei suoi scritti e nelle sue conferenze il Gréa insiste molto sulla necessità di non separare l’attività pastorale dalla vita interiore. Spesso per questo cita e commenta un’espressione di uno dei suoi amici mons. Mermillod sulla “febbre delle opere”, “l’eresia delle opere”, “l’eresia dei nostri tempi”. Il Gréa non voleva che: “con la scusa di svolgere del ministero, cioè di santificarsi e di diffondersi”, i religiosi trascurino il servizio divino “come se il ministero del sacerdote abbia una doppia faccia l’una concernente il servizio di Dio e l’altra quello delle anime per ricondurle a Dio. Il servizio di Dio deve essere il primo e principale impegno”. In un discorso per la prima messa del R. P. Gumi, sacerdote delle ‘Missions Etrangères’, 25 marzo 1895, St-Antoine, tra l’altro diceva: “Nella chiesa vi sono due modi di essere: quello contemplativo con cui entriamo in comunione con Dio e quello attivo, con cui andiamo da Dio agli uomini… La vita contemplativa e quella attiva sono tra loro unite, vi è tra loro come una misteriosa unione. Agli spiriti contemplativi Dio ha concesso lo zelo e l’azione…non c’è opposizione tra queste due forme di vita…tutti i santi hanno saputo unire l’una all’altra, l’amore per la contemplazione con lo zelo dell’apostolato”.
Alla preghiera deve seguire lo studio sono. Due momenti essenziali per il Gréa: “E’ necessario che il sacerdote abbia il gusto dello studio: quello dei Padri, per esempio. Questo deve essere unito alla preghiera e la deve sostenere. Solo così il sacerdote potrà trasformarsi in un contemplativo. E’ necessario che il sacerdote sia un contemplativo…voi acquisterete un tale spirito di contemplazione con la mortificazione…se uno non è un mortificato, non può essere un contemplativo”.
4. LA DEVOZIONE A CRISTO
Don Gréa condivideva, come tutti i santi, il “gusto straordinario” per il mistero della SS. Trinità. Infatti, “nel descrivere l’ordine della Chiesa e l’ammirevole disposizione dell’opera divina in essa”, volge lo sguardo “verso la gerarchia divina” e contempla “la società del Padre e del Figlio nello Spirito Santo”. Il suo pensiero sulla chiesa lo riassume in questa formula: “Lo Spirito Santo vive nella Chiesa; opera in lei con onnipotente efficacia le meraviglie della sua intima attualità; informa e anima tutte le parti. Viene nella Chiesa e vive in essa, perché il Figlio stesso è in questa Chiesa, amato dal Padre e amante il Padre, perché attira su questa Chiesa, che è la sua estensione e la sua pienezza, l’amore del Padre, che l’anima del suo stesso amore; perché il mistero dell’amore del Padre e del Figlio l’avvolge e la sostiene in una ineffabile solidarietà”. Abituato a vedere Cristo nella Chiesa, don Gréa, non dimentica la Trinità, ma la raggiunge attraverso la via cara ai grandi spirituali: dal Cristo-Uomo al Cristo-Dio, e, per mezzo di Lui, alla Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Ma, in fin dei conti, parla relativamente poco della Trinità, e quando tratta di Dio, dell’amore di Dio – in modo particolare in un discorso sull’amore di Dio, tenuto, con poche varianti, a Saint-Pierre-de-Canon (1886) e nel carmelo di Lons-le-Saunier (1888), a Saint-Antoine (1890), l’amore di Dio è soprattutto l’amore per il Cristo nella sua umanità, “amore avido, generoso, eccessivo”, amore che rende Dio povero, Lui che possiede tutti i tesori della divinità, “che fa di Lui, ricco, bisognoso di noi”, che si riveste della natura umana “degradata dal peccato e condannata alla morte”…”la prima conseguenza di questo amore consiste nel fare in modo che Dio abbia fame e sete di noi, quasi che noi la potessimo soddisfare”. Vi è un secondo aspetto dell’amore. Questo Cuore insaziabile, che viene alla ricerca di noi con l’avidità di un tiranno in vista dell’oggetto del suo desiderio, è, nello stesso tempo, generoso e liberale. Ci vuol possedere e a noi donarsi, se assume la nostra natura è per arricchirla dei tesori della sua divinità, Deus factus est homo ut homo fieret Deus: “Il donarsi, non è per Lui, un semplice piacere di un onnipotente che si diverte nel prodigarsi.
Nel suo abbassarsi, l’amore non avrà piena soddisfazione se non innalzandoci e trasferendoci in Lui. Il disegno di Dio nell’Incarnazione prevedeva, coll’incorporarci al suo Figlio Divino, di introdurci, nella sua persona, nella società eterna dell’adorabile Trinità e di concederci in eredità il suo Regno, divinae consortes naturae “. Il Cristo, vivente nella Chiesa, vive in modo particolare nelle anime dei giusti, dei santi religiosi. Questo Gesù, nostro tutto, è per il mondo, secondo le parole di S. Leone, exemplum et sacramentum: “E’ il mistero che salva il mondo e…l’esempio che dobbiamo seguire…dobbiamo imitare. Gesù ci ha chiamati allo stato religioso per configurarci alla sua immolazione. Questo è lo scopo dei misteri che celebriamo e dei sacramenti che riceviamo. La Santa Eucaristia accende nei nostri cuori il fuoco dell’amore divino e ci partecipa la stessa vita divina. Dobbiamo imitare Gesù” che, “durante la sua vita e sulla croce è stato il grande religioso del Padre”. Dobbiamo imitarlo ed amarlo. “non ha bisogno di noi, ma del nostro amore”. E, quindi, in questo consiste l’essere religioso: “Da una parte, Dio, il suo amore, la sua Provvidenza, che ci salva dall’inizio del mondo fino ad oggi. Dall’altra, l’uomo, che risponde con generosità. Così si instaura come una trama, come un collegamento tra Dio e l’uomo. Noi siamo associati a Dio; Dio conduce la nostra volontà a seguire ogni meandro della sua”.
Ma quale tristezza, osserva il Gréa: “Guardate quanto poco spazio il suo amore trova nei cristiani e tra i cristiani, presso i religiosi e tra i religiosi, nel cuore del clero e dei sacerdoti”. Di fronte a questo struggente dolore dove trovare riparo?: “nella sofferenza e nel dolore di Gesù. Nasce nel cuore dell’inverno, in una fredda notte, senza panni per ripararsi dal freddo, quasi a simboleggiare il freddo del mondo che vuole riscaldare, perché è venuto ad accendere il fuoco sulla terra e altro non desidera che vederlo ardere. Il mondo è freddo. Si cerca di evitare l’inferno, ma non ci si preoccupa di amare. Si ha paura, ma non si ama. Si dice: l’importante che non mi danni, e dell’amore di Gesù, nessuna preoccupazione. Tuttavia, si trovano alcuni, quotquot, che lo accolgono, che non gli chiudono la porta del loro cuore, che a Lui vanno dicendo: vieni a riscaldarTi al focolare del mio cuore. Accendete, Voi stesso, il fuoco che dovrà riscaldare le vostre membra fredde più per la durezza dei cuori, che per il freddo dell’inverno.
“Gesù entra generoso nel cuore di colui che Gli apre la porta. Il cuore generoso, quasi come cera, si fonde al suo avvicinarsi e in questa fusione d’amore, opera dello Spirito Santo, ci facciamo una sola cosa con Lui, divenendo, così, figli di Dio, dedit eis potestatem filios Dei fieri (Gv. 1,12). Ecco quanto Gesù opera in coloro che contraccambiano il suo amore! Dobbiamo essere tra questi…Noi che, come gli Apostoli, siamo stati chiamati: restiamo fedeli…”Modello di questa intimità con Cristo è Giovanni. Coloro che non sono rimasti fedeli non devono perdersi di coraggio, né ritenersi privati del Regno dell’amore! Perché Nostro Signore ha scelto Pietro, che l’aveva rinnegato tre volte e non piuttosto Giovanni, con Maria ai piedi della croce, per metterlo a capo della sua chiesa? Per insegnarci che non dobbiamo inorgoglirci per la nostra vocazione, dono gratuito della bontà di Dio. In contraccambio, ci chiede di amarlo più degli altri.
Ti ho perdonato di più, mi ami di più? Tra noi si deve instaurare una santa emulazione nell’amare di più Nostro Signore”. In altre parole, quanti, in forza di “un grande disegno” provvidenziale, vengono condotti alla tomba di S. Antonio, da questi si sentono ripetere: “il demonio ha paura delle sante privazioni e della preghiera solenne, della salmodia del giorno e della notte”, ma anche subito aggiungere “ciò che maggiormente lo spaventa è l’amore di Dio. Senza la carità, a nulla serve tutto il resto. Ecco ciò che teme! Pertanto, ai digiuni, alla preghiera uniamo una devozione affettuosa, ardente e devota a Nostro Signore. AmiamoLo con tutto il cuore”. In questo consiste la gratitudine per il dono della vocazione e l’intimità con il Cristo. Devozione a Cristo, che, in una riflessione sul vangelo del venerdì della terza settimana di quaresima, 1 marzo 1894, si trasforma in nobile e significativa preghiera: “Gesù, Tu la santità stessa, la purezza dei gigli d’Israele, chiedi a me, che provengo dall’abisso del peccato, di essere rifugio per il tuo cuore. Ah! Ora, sì, mi rendo conto del tuo mistero d’amore.
A me misero, Ti rivolgi per chiedere aiuto, ma posso io esserti di sollievo, posso io rinfrancarTi con il mio amore! L’amore esige una qual uguaglianza tra le persone, altrimenti è come se il debole si presentasse al forte per ottenere protezione. Nel tuo caso, però, tutto viene capovolto. Tu, il Santo, chiedi aiuto ad un misero peccatore; Tu, l’Onnipotente, domandi amore ad un fragile fuscello. Ebbene, Te lo concederò senza remora alcuna. Eccolo: ‘Hodie’. Ho udito la tua voce. Ti offro il mio amore, tutto a Te mi dono, tutto prendi, nulla mi riservo, a me basta che ogni istante della mia vita solo trascorra nell’amarTi. Che solo Ti ami e questo basti a riempire la mia vita”. Un tale amore per il Cristo, che fa che, l’amante, viva di Lui, per Lui, e ami ciò che Egli ama, il Gréa, si compiaceva ripetere, può solo scaturire dai sacramenti, soprattutto dal sacramento dell’Eucaristia, che è “il sacramento di tutti i sacramenti, il sacramento per eccellenza”, per mezzo dal quale “Cristo Gesù si propaga e vive in coloro che non rifiutano il dono celeste, si propaga e si moltiplica senza dividersi, sempre uno e sempre forza unitiva delle moltitudini in Lui”. Per il Gréa la santa messa “è la parte principale di ogni servizio divino e a questo dona tutta la sua dignità e la sua forza soprannaturale”.
La comunione eucaristica, anche quella quotidiana, restava, sotto l’influsso di mons. de Segur, una delle maggiori preoccupazioni del nostro: “Ogni giorno umilmente e devotamente, comunicate alla sorgente della grazia, della santificazione, dell’umiltà e della dolcezza, della povertà, della castità e dell’obbedienza; andate e questo è quanto basta”. “Nella comunità del Gréa, la comunione quotidiana era la norma, anche per i piccoli oblati, diversi lustri prima del celebre decreto Tridentina synodus di Pio X”. A seguire un brano di una lettera dove il Gréa, esprimendosi in un perfetto stile scolastico, già di per sé conciso, abbandonandosi in una delicata effusione di tenerezza, ci svela la sua profonda e amabile convinzione della nostra unione in Cristo:”Cari figli, cerchiamo di supplire alla distanza dei corpi con l’unione in Cristo. Viviamo, in questo ubi eucharisticum offertoci dalla fede, che ci fa superare l’ubi circumscriptivum dei corpi e l’ubi definitivum delle anime. Noi formiamo un tutt’uno, inseparabile, in forza di questo meraviglioso ubi della santa e divina comunione. E’ là, quindi, che ci diamo appuntamento, quale anticipazione dell’eterno incontro nel cielo.
Cari figli, come a Dio è piaciuto unirci nel suo amore, così amiamoci gli uni gli altri”. Il Gréa, quindi, con il suo spirito di fede, il suo amore per la preghiera e la penitenza, la sua ardente carità, qualità proprie degli amici di Dio, può ben essere considerato non solo quale uomo di chiesa, come sopra detto, ma anche quale uomo di Dio, nel significato che questo termine assume presso i profeti dell’antico Israele.
5. LA DEVOZIONE ALLA VERGINE E AI SANTI
Dio tutto ci ha donato per mezzo di Maria, poiché per suo mezzo ci ha donato Cristo:”Come Dio ci ha donato il suo Figlio unico per Maria, è per Maria che tutto abbiamo ricevuto”. E ancora “Gesù ci vuole là dove Egli è, ma, prima di introdurci con Lui nella gloria del Padre, vuole che con Lui abitiamo in quella della madre”. Il Gréa non dimentica la profonda connessione che c’è tra Maria e la Chiesa: “La Chiesa è la sposa; Maria è la madre. E’ Maria che deve formare e preparare la sposa del Figlio”. In un momento particolarmente felice della sua riflessione e profondamente pieno di significato così continua:”La madre e la sposa: il sacrificio che Nostro Signore ha offerto sulla croce non è solo oblazione dell’umanità concepita nel seno di Maria, ma essendo questa umanità compendio della creazione, una tale oblazione diviene oblazione dell’intera opera di Dio. Due sono le persone per mezzo delle quali questa opera di Dio si riannoda a Cristo: Maria e la Chiesa, Maria sua madre e la Chiesa sua sposa.
Era necessario, dunque, che Maria e la Chiesa fossero associate al sacrificio di Gesù. Per la Chiesa ciò avviene lungo il corso dei secoli nei martiri…nei santi che vengono immolati…e ancor più profondamente per mezzo della santa comunione, che, unendo la carne del cristiano a quella immolata di Gesù e facendola partecipe dei frutti della passione, con Lui la fa morire e insieme risorgere. Questo si verifica per la Chiesa, ma anche Maria deve essere offerta. Infatti è lei che donando a Gesù un’umanità, le dona la materia per il suo sacrificio, ma donandola a Gesù, la dona anche alla Chiesa…Gesù nel suo sacrificio presenta al Padre quanto ha di più caro: sua Madre e la sua Sposa. Una tale necessità di sacrificio non ci deve stupire. Gesù, trascinando in questo suo sacrificio la Chiesa, nello stesso tempo, purifica e prepara la Madre…avendo preferito nascere dalla nostra stessa stirpe, [quella di Adamo] era necessario che il suo sangue, risalendo fino alla sorgente, purificasse anche la madre…la vita di Maria è un insieme misterioso ed ineffabile di dolori e di gioie…Maria è madre della Chiesa. In Gesù che si offre per la Chiesa, è Maria che si offre per lei. Per questo, con espressione ardita, ma non affatto contraria allo spirito della chiesa, possiamo dire che Maria è stata associata all’opera della Redenzione: Gesù Redentore, Maria Corredentrice, la nuova Eva da Dio collocata accanto al nuovo Adamo, non solo, ai piedi della croce sul Calvario, ma in ogni istante della vita…Maria ha generato senza dolori Gesù nella gioia del Natale e generato noi ai piedi della croce nelle sofferenze del Figlio suo Gesù”. Altrettanto profondo legame il Gréa instaura tra la devozione a Maria e quella a Cristo. “Ricordatevi che la devozione alla Vergine è la misura della pietà che noi abbiamo per Gesù Cristo e Dio. Chi non ha la devozione per Maria, non l’ ha per Gesù…perché Maria è la Madre del bell’amore…la madre della pietà”.
Ritengo sia opportuno, a questo punto, riproporre anche una significativa e filiale preghiera con cui il Gréa terminava alcune sue considerazioni in occasione della festa di S. Giovanni evangelista, il 27 dicembre 1893:”Che la S. Vergine, a noi data come Madre, in S. Giovanni, diffonda sui sacerdoti e su tutti noi lo spirito di Gesù, lo spirito di S. Giovanni, lo spirito di preghiera. La preghiera è una montagna da scalare, abbiamo un peso da sollevare, il peso della nostra debolezza. Lottiamo, scaliamo coraggiosamente i pendii della via della preghiera”. Il Gréa predilige i santi dei tempi passati, soprattutto quelli di epoche più lontane e nei loro scritti, come nelle loro biografie, vi cerca esempi e lezioni di vita. “Eleviamo il nostro sguardo verso coloro che hanno messo in pratica questa legge [la legge delle Beatitudini]…seguiamone gli esempi. Non sono solo i testimoni delle nostre lotte, ma ci spronano con il loro esempio, su noi fanno discendere le grazie di Dio, essendone i dispensatori. Camminiamo, spinti dal loro esempio e fortificati dalla loro intercessione, fino a raggiungere la meta”.
Cosa vuol dire per il Gréa essere santo?”Le diverse forme di vita religiosa in cui si esprimono queste grandi famiglie di eletti [gli istituti religiosi] sono chiamate misteriosamente a riprodurre in loro e per mezzo di loro nella chiesa, le molteplici caratteristiche dell’unico e divino modello di ogni santità. In questo provvidenziale e divino disegno ogni istituto ha un’alta e sublime missione da compiere [oltre quella esteriore], quella che si riferisce a Gesù Cristo stesso e cioè di riprodurre sempre più adeguatamente il volto e la vita di Cristo nella chiesa…è destinato a realizzare, su questa terra, il definitivo compimento dell’azione divina. Ogni istituto religioso vive, in questa grande e profonda opera di santificazione, un suo misterioso e singolare destino…e tutti insieme concorrono a riprodurre nella chiesa la perfetta immagine di Gesù Cristo, modello di ogni perfezione”. Sempre in quest’ottica , parlando dello stato religioso e del posto che esso occupa nella chiesa, aggiungeva: “Lo stato religioso è un professare in modo visibile la perfezione cristiana…non oltrepassa gli impegni battesimali, ma dà loro compimento perfetto e pieno. Lo stato religioso è di per sé uno stato di perfezione e di santità cristiana”. Quasi non pago di queste sue riflessioni e sempre preso dalla sua visione teologica d’insieme, che sola può garantire, nella diversità di attuazione, un’unità di origine, così continua:”Nella chiesa cosa si deve intendere per santità? E’ il fluire della perfetta carità da Dio all’uomo, realizzato dal mistero della Redenzione. E’ la perfezione dell’amore nel sacrificio totale. Dall’accettazione del sacrificio e della morte scaturisce il frutto della santità della chiesa. Dio ha amato l’uomo fino a morire per lui, si è consegnato alla morte per l’uomo…la chiesa, a sua volta, risponde a questa provocazione dell’amore con una risposta di morte. Anch’essa ama fino alla morte…
Raggiungono la santità solo coloro che per mezzo di un morire spirituale si distaccano dal mondo e da ogni oggetto terrestre e perituro. Quindi, poiché ogni cristiano è chiamato alla santità, il battesimo, in cui la chiesa tutta si trova immersa, comporta per ogni fedele l’impegno a questo morire e per mezzo di una mistica sepoltura, ne ripropone il mistero (Rom. 6, 1-14)…La santità, in certo qual modo, si identifica con lo stato religioso; consistendo l’essenza di questo nell’essere professione pubblica di santità, e essendo la chiesa, per se stessa santa, è tutta chiamata a questo stato, e tutta, un giorno,vi perverrà (Ap. 21,2)”. Concludendo: tutta la spiritualità del Gréa può essere racchiusa in queste parole: preghiera e sacrificio, con Maria, per amore del Cristo e della Chiesa, suo corpo mistico.6. Una SPIRITUALITA’ all’insegna dell’UNITA’Tutta la spiritualità del Gréa viene a costituire un tutt’uno armonico e coerente, che deriva la sua interna unità nell’unità e nel fine della Redenzione: la Chiesa e la Liturgia. Chiesa e Liturgia che nel Gréa formano un binomio inscindibile, che lo ha impegnato per tutta la vita, durante la quale ha solo cercato di mettere in pratica quanto era frutto della sua contemplazione e del suo studio. Don Gréa nell’introduzione del suo libro sulla Chiesa, citando un passo di S. Paolo della lettera ai Corinzi, per sostenere quanto vuol dimostrare, ne trae tutte le conseguenze: “poiché il mondo non aveva conosciuto Dio nelle opere della sapienza e della potenza (cioè: nella creazione degli angeli e degli infiniti astri, nella creazione dell’uomo e del paradiso terrestre), Dio si compiace salvarlo con la divina follia della sua misericordia” (cioè: l’Incarnazione del Figlio, la sua immolazione sulla croce, l’applicazione di questa Redenzione agli eletti per mezzo della liturgia: sacrificio e sacramenti e per opera della Chiesa, madre dei suoi figli).
E a conclusione delle conferenze sulla Settimana Santa continua con queste esemplari chiarificazioni: “Così, in questa nuova opera Dio, rivelando quanto in Lui vi è di più profondo e aprendo gli abissi della sua tenerezza e della sua bontà, si manifesta trasportato dall’amore e tutto compie con grande profusione…Questo mistero, opera totalmente e infinitamente perfetta, è in se stessa necessariamente unica…Dio non può incarnarsi o immolarsi che una sola volta e “con un’unica oblazione, per l’eternità , porta a compimento ogni santificazione” e “il mistero di Dio”. Tuttavia nella profondità dei suoi segreti , scopre l’arte divina per moltiplicare ciò che è uno, di propagare nei secoli e nel mondo: l’Incarnazione, il sacrificio e la Redenzione, di prodigarli e di riversarli a dismisura sulle strade dell’umanità, di portarli, ogni giorno e in ogni ora, nel cuore degli uomini. A questo è chiamata la Chiesa per mezzo della Liturgia.” L’Incarnazione e la Redenzione, si propagano attraverso i canali dei sacramenti, per mezzo del Battesimo e della Penitenza, e, così, questo Dio incarnato, il Cristo Gesù, si propaga e vive in coloro che non ricusano il dono celeste, si estende e si moltiplica senza dividersi, sempre uno, e sempre ricomponente le moltitudini in Lui”. Questo divino propagarsi del Cristo che lo sviluppa e Gli dona compimento e “pienezza”, costituisce il mistero stesso della chiesa: “e come da Adamo e dopo di lui nel genere umano che da lui procede vi era una gerarchia e un ordine costituito, così c’è una gerarchia della Chiesa che procede dal Cristo e, in questo propagarsi del Cristo, si estende fino ad interessare le ramificazioni più periferiche della nuova umanità, suo corpo mistico, nonché della nuova creazione su cui estende il suo dominio”.
A questo si può volentieri, in una grandiosa visione d’insieme del piano divino, far seguire un altro passo: “La Santa Chiesa quaggiù viene a contatto con gli elementi di questo mondo, destinato a perire con tutto l’ordine del vecchio uomo, quando i disegni di Dio sugli eletti saranno compiuti; in questi elementi sceglie la parte di Dio su questa natura che è opera sua; ne trae la materia dei sacramenti e oltre ai sacramenti serba al servizio di Dio e stacca dagli usi profani una porzione scelta, quale primizia delle creature; poi servendosi delle cose create, divenute sacre, fa ascendere verso Dio l’odore del sacrificio e la voce della preghiera”.”Il vecchio uomo – infatti – sarà lentamente assorbito e in tutti distrutto, “perchè, come dice S. Paolo, ciò che è mortale venga assorbito dalla vita (2 Cor. 5,4). Il Cristo nel suo Corpo mistico divora, si può dire, questa mortalità; prende gli elementi infermi, se ne nutre, li assimila, e ne forma sue membra con una nuova e immortale vita che loro comunica. Ma, sia che consideriamo l’angelo, sia che consideriamo l’uomo, la Chiesa ci appare come la consumazione finale a cui tutto deve tendere e compiersi. Così viene confermato quanto da noi detto all’inizio del nostro discorso, che costituendo essa con il Cristo una sola cosa, il suo corpo e la sua pienezza, è con il Cristo l’inizio e la fine, l’alpha e l’omega, lo sguardo primordiale ed ultimo di Dio in tutte le sue opere, e l’unità che le riunisce e le rende tutte infinitamente degne del suo eterno compiacimento”. Prese nel senso sopra esposto, le parole “Redenzione, Messa, Liturgia” sembrano, quindi, assumere lo stesso significato: suprema glorificazione di Dio, per mezzo della misericordia, salvezza del genere umano. Compendio di ogni santificazione e fine di ogni spiritualità.
TRACCIA per una SPIRITUALITA’ DIOCESANA
Credo, che partendo da quanto sopra esposto riguardo alla spiritualità del Gréa e mutuando da alcune sue intuizioni sulla chiesa, sul sacerdozio, come dalla realtà di un popolo convocato all’ascolto della Parola, sia possibile proporre una traccia per una spiritualità diocesana. Problema oggi particolarmente sentito e criticamente studiato. La spiritualità diocesana è nativamente e radicalmente segnata dall’appartenenza ad una chiesa particolare, che cammina in un determinato spazio-tempo, in una determinata cultura, secondo una certa tradizione, che alimenta alcune forme piuttosto che altre. Essa si realizza prima di tutto e soprattutto nella partecipazione alla vita cristiana della comunità locale: parrocchia e diocesi, in tutte le sue molteplici forme di attuazione, diverse da luogo a luogo. Date queste premesse, si deve affermare con decisione che ogni chiesa particolare è portatrice di una forma originale dell’unica spiritualità cristiana. Per il sacerdote la prospettiva di una spiritualità diocesana comporta un notevole spostamento di accento: non è più sufficiente un generico buon esercizio del proprio ministero come fonte e forma della propria spiritualità sacerdotale, ma occorre un’identificazione e un coinvolgimento nella vita di fede della propria chiesa particolare, a partire dalla convinzione, che la spiritualità di un sacerdote diocesano è quella della sua chiesa, al servizio della quale è stato posto.
Quanto al presbiterio esso va considerato non come la somma dei sacerdoti che fanno parte di una diocesi e che il vescovo ha a disposizione per servire la sua chiesa, ma come un corpo, dove coloro che ne fanno parte sono membra gli uni degli altri. Il presbiterio ha comunque il volto storico di quanti ne fanno parte, con la loro storia, la loro vita, il loro ministero. Condizione essenziale per edificare la chiesa particolare risultano l’unità e la comunione presbiterale.Questo comporta una conseguenza di capitale importanza per la spiritualità diocesana dei ministri ordinati: l’unità con il vescovo e l’unità dei presbiteri tra loro non è un optional, un buon consiglio perché è meglio andare d’accordo che non andarci. E’ condizione fondamentale della loro identità: è presupposto ineliminabile del loro ministero. Elementi per una spiritualità diocesana: Per i ministri ordinati si dovrà scavare sul nesso tra sacramento dell’ordine ricevuto e struttura della chiesa di cui sono a servizio, per dedurre da questo rapporto una proporzionata impostazione di convinzioni, parametri, orientamenti, scelte ed azioni. Sempre su questa base teologale va impostata la definizione dei ruoli fondamentali nella chiesa; finché tra laici, consacrati e ministri ordinati sono scarse l’integrazione e l’armonizzazione, non si può parlare di spiritualità diocesana: ogni chiesa particolare ha bisogno di esprimere, anche nel suo funzionamento interno, quella santità di tipo oggettivo che riceve come sposa di Cristo, senza macchia e senza ruga.
I ruoli nella chiesa non sono paragonabili alle mansioni di qualunque altra struttura sociale, ma sono costitutivi della compagine della chiesa stessa, perché non solo la esprimono, ma la costruiscono nella loro qualità di membra specializzate di un organismo vivo, ciascuno per la sua parte; questa armonia non è soltanto accorgimento tecnico-pastorale per ottenere migliori risultati (spirito di squadra), ma è soprattutto il riflesso di una chiesa che acquisisce una somiglianza sempre più marcata e ardita con la comunità trinitaria. Molti disagi che le diocesi patiscono derivano da una situazione in cui non c’è un giusto equilibrio nella distribuzione del carico di responsabilità ecclesiali che ministri ordinati, laici e consacrati hanno nei confronti della chiesa e della salvezza; ad esempio: rimane sterile una spiritualità diocesana che non coinvolge sufficientemente i laici che, per natura, sono i più capaci di darle caratterizzazione territoriale, perché confrontano la realtà cristiana con l’ambiente dove si vive: famiglia, scuola, lavoro, politica, economia, cultura ecc.
E’, fuor di dubbio, difficile trovare il punto di equilibrio tra i fattori che teologicamente definiscono una chiesa particolare (e la rendono teologicamente identica a tutte le altre) e quelli che ne determinano l’identità di un popolo di Dio in quel luogo (e la rendono diversa da tutte le altre); ma è importante, perché, se le chiese particolari diventano tutte uguali in senso sociologico, diventano insignificanti per il territorio su cui esistono, perdendo così l’essenziale rapporto con il popolo; ma se esse spingono eccessivamente la loro particolarità, si frantumano, rischiando di perdere quelle caratterizzazioni che le rendono chiesa. Più in generale credo che si debba maggiormente sottolineare, per una solida spiritualità diocesana, il profondo e necessario rapporto tra il vescovo e il suo popolo: infatti il vescovo offre alla chiesa particolare le caratterizzazioni teologali, mentre di per sé non è in grado di coagulare nella sua persona le istanze locali, anche perché di solito proviene da realtà diverse ed è quindi portatore di esperienze fatte altrove; il popolo, invece, porta in dote alla propria chiesa tutte quelle caratterizzazioni che derivano dalla sua storia, dalla sua psicologia collettiva, dall’esperienza e consapevolezza del proprio divenire, tutte cose che le danno una fisionomia particolare, a condizione però che siano realmente capaci di mediare nella vita contingente le grandi e assolute realtà cristiane.
In tutto questo può esserci di guida il grande vescovo Agostino, il quale, pur nutrendo un grande timore per il fatto di esser vescovo, tuttavia si rallegrava sommamente per il fatto di essere cristiano: “Mentre mi atterrisce ciò che sono per voi, mi conforta ciò che sono con voi. Per voi sono vescovo, con voi cristiano. Quello è un titolo di un incarico ricevuto, questo un titolo di grazia; quello è una fonte di pericoli, questo la fonte della salvezza”. E ancora: “Da questa cattedra siamo per voi come maestri, ma siamo condiscepoli con voi sotto quell’unico Maestro”. “Vi do un nutrimento di cui io stesso vivo, metto sulla tavola gli alimenti di cui mi sazio io stesso. Io sono un ministro, non il padrone di casa”.