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L’esempio degli apostoli
Ogni ordine religioso afferma di rifarsi all’esempio degli apostoli e al modello cristiano descritto negli “Atti degli Apostoli”. “Essi perseveravano nell’insegnamento degli apostoli…. Avevano ogni cosa in comune… Vendevano le loro proprietà…” (At.2, 42-47). Si tratta, però, di un riferimento ideale; cioè si vede nell’esempio descritto dagli “Atti degli Apostoli” qualcosa di sublime, quasi utopistico che deve fermentare ed ispirare ogni progetto di vita cristiana.
La vita religiosa si fa risalire al periodo successivo alla prima generazione cristiana e si colloca più o meno a! tempo del manifestarsi del monachesimo, cioè nella seconda metà del secolo terzo. Il monachesimo avrebbe portato nella vita cristiana un progetto di vita diverso, più impegnato e radicale, almeno in certe forme, di quello usuale a tutto il popolo di Dio.Invece i canonici regolari affermano che la loro vita, la vita canonicale, risale ai tempi apostolici.
Affermazione bizzarra? Affermazione storicamente indimostrabile? Affermazione dovuta alla tradizione seicentesca, quando con argomenti piuttosto leggeri se non allegri dal punto di vista scientifico, si polemizzava tra i vari ordini religiosi, alla ricerca di una improbabile longevità storica? Assolutamente no. Si dice che la vita canonicale, cioè la vita comune del clero, ha avuto inizio con l’esempio degli apostoli e dei loro immediati successori. Essi diedero l’ispirazione ideale alla vita comune ed anche l’esempio concreto. Cioè: concretamente pensavano che i cristiani, in particolare i sacerdoti, sarebbero vissuti “insieme”, “da fratelli”, “in comunione”.
La parola e la realtà
Occorre intendersi. Certamente gli apostoli non hanno fondato alcun ordine religioso, né sapevano che cosa fosse la vita religiosa, almeno nel senso del diritto canonico. Anche la stessa parola: “vita religiosa” ha acquistato valenze e significati diversi. Come quella parola, tante altre hanno avuto nel corso dei secoli uno sviluppo di significato che, a volte, sembrano totalmente divergentiFacciamo un esempio. La parola “Congregazione” cosa vuol dire?Oggi, nel nuovo diritto canonico, esprime ed indica: un dicastero della curia vaticana. Nel diritto canonico precedente (1915) denotava ed indicava: “una religione” (altra parola dai significati ambigui) di voti semplici; cioè un raggruppamento di religiosi che aveva il nome di “ordine religioso“; oppure, se si trattava di monaci, denotava un raggruppamento di monaci con a capo un superiore generale. Mentre per indicare un ordine religioso il nuovo diritto canonico usa la parola “Istituto di vita consacrata“. In antico la parola “congregazione” aveva vari significati: a volte indicava una comunità singola, a volte un organismo composto da varie case, a volte il semplice fatto che alcune persone vivessero insieme in forme di vita religiosa.
I Canonici regolari non sono stati fondati dagli apostoli; in quel periodo non ci furono forme di vita religiosa contrapposte a forme di vita secolari. secondo il nostro vocabolario. Però la vita canonicale risale al momento apostolico perché esprime la vita comune del clero. Gli apostoli e i loro immediati successori prevedevano per tutti i cristiani la vita comunitaria: questa hanno lasciato in eredità. Forse l’esempio può apparire pretenzioso, tuttavia si può dire: come “lo spezzare il pane” indica un ideale ed una forma concreta di celebrazione, così la “vita comune” esprime un ideale ed un orientamento concreto da applicare.Questa vita comune ebbe soprattutto all’inizio, forme spontaneistiche, non sempre omogenee e continue; tuttavia tracce ed immagini di questa vita comune sono rintracciabili. Alcune nostre osservazioni non hanno la forza della dimostrazione; alcune tracce non sono specifiche della vita comune del clero, ma della vita cristiana in genere; altre, invece, sono pertinenti e specifiche, ma dall’insieme ci sembra che risulti chiaro come i canonici regolari, nella chiesa di Dio, abbiano portato avanti da sempre il carisma della vita comune del clero.
I Padri Apostolici
L’esperienza fatta sotto l’entusiasmo della Pentecoste è rimasta sempre nella nostalgia della chiesa: “Essi perseveravano nell’insegnamento degli apostoli…” Ma è anche un modello concreto di vita, perché ogni chiesa che sorge dalla predicazione apostolica è retta almeno da un collegio di anziani, assistiti da diaconi; attorno al presbiterio si svolge tutta la vita della chiesa: predicazione, culto, assistenza. Le testimonianze sono indirette, perché la chiesa ha iniziato a vivere, prima di teorizzare.I primi testimoni, i cosiddetti “Padri Apostolici“, pur sapendo di essere i successori degli apostoli ed esprimendo la coscienza della loro vicinanza col tempo e col mondo apostolico, prendono l’iniziativa esitanti, consapevoli della grande distanza morale dagli apostoli. Provavano più o meno quello che avevano provato gli apostoli quando furono “senza” Gesù.Gli argomenti principali di questi primi scritti cristiani sono, in sostanza, due:
1) la polemica contro il giudaismo;
2) La comunità, l’armonia della vita ecclesiale.Il primo argomento non interessa il nostro studio; il secondo, invece, sì; e dimostra come fosse una specie di preziosa eredità che essi non intendono assolutamente dilapidare.Come la polemica col giudaismo è un importante argomento in quanto si tratta di difendere la verità cristiana, così l’intervento sulla comunità è un serissimo argomento in quanto riguarda anch’esso la verità cristiana: la vita cristiana è vita di comunità. Le promesse fatte al popolo dell’Alleanza sono diventate realtà in Gesù Cristo; ma Gesù Cristo è stato riconosciuto come inviato e Figlio di Dio da un popolo nuovo, i cristiani. Si ricordino, essi, di non tralignare e vivano la “nuova legge” della carità. E, visto che anche l’unico rito che fin dai giorni di Cristo risorto – lo spezzare il pane – è un forte richiamo unitario e comunitario, i cristiani si sentano chiamati a vivere l’eucarestia nel profondo rispetto della comunione con tutti i credenti. La dimensione comunitaria, dunque, fin da principio emerge come fondante e caratteristica. Anche il battesimo, che segna il passaggio e la conversione, pone i cristiani di fronte alla esigenza di fedeltà dei propri impegni “nella comunità”, per rispetto ad essa, per l’edificazione di essa.Tiepidezze, disordini, ambizioni, ricerche dei primi posti, cupidigia del possesso sono le insidie, non lette tanto in chiave intimistica e personale, ma in chiave comunitaria: è la chiesa che si rilassa; è l’assemblea che degrada; è la pace e l’unione della chiesa che viene minacciata e compromessa!
Chi sono questi “Padri Apostolici“?Ci sono pervenuti alcuni scritti risalenti alla prima o al massimo alla seconda generazione post-apostolica: alcuni sono anonimi, altri addirittura apocrifi (cercavano nella falsa attribuzione apostolica credibilità e prestigio). Ricordiamo: “La Dottrina degli Apostoli o Didaché“; “il Pastore di Erma“: “Lettera di Barnaba“; “Seconda Lettera di Clemente“; ecc.A noi interessano alcuni di loro, per la forte accentuazione che hanno nel discorso comunitario, con testimonianze sullo prime realizzazioni della vita comunitaria.CLEMESTE ROMANO.Autore di una lunga lettera indirizzata alla chiesa di Corinto per correggerla ed esortarla in occasione di uno spiacevole scisma scoppiato al suo interno.Secondo S. Ireneo, Clemente sarebbe stato il terzo successore di S. Pietro; Tertulliano, invece, afferma che Clemente fu ordinato dallo stesso S. Pietro. Egli, con il richiamo al ravvedimento, a piegare “le ginocchia del cuore”, intende restaurare la pace e l’armonia della chiesa, non solo a Corinto. L’uso intensivo della S. Scrittura sottolinea l’esitazione per la propria iniziativa autorevole, ma anche la fonte e la ragione della stessa autorevolezza.
IGNAZIO DI ANTIOCHIA. (†circa il 110).Dalla esperienza bruciante: scrisse sette lettere durante il viaggio verso Roma e verso il martirio, sotto la vigilanza sospettosa e dispettosa delle guardie, alle comunità cristiane (“chiese”) toccate nel percorso; ecco perché parliamo di esperienza bruciante: lo stato d’animo di uno che sa di camminare verso il martirio è certamente sovreccitato.Le sue lettere non offrono riflessioni teologiche precise e magari pedanti: sono piuttosto l’effusione immediata e partecipe di un uomo forte nella fede e teso a rendere la propria testimonianza. Tuttavia possono essere definite come “la introduzione alla storia antica”[1] per il complesso di notizie sparse sulla vita della chiesa e per la documentazione sul clima di fede.Autentico “teoforo” (portatore di Dio), Ignazio è il maestro di unità ecclesiale ed è il primo ad attestarci esplicitamente l’evoluzione delle strutture ministeriali della chiesa. Parla, infatti, di vescovi, che presiedono come Gesù Cristo, di presbiteri, che proseguono la comunità apostolica, di diaconi, che li aiutano nel servizio assistenziale. Così ci delinea l’ordinamento di una comunità cristiana all’inizio del secondo secolo; e a tutti porge il suo perenne invito a vivere in comunione.
Nella lettera ai fedeli di Smirne, ad esempio (8, 1-2), afferma che la comunità cristiana deve seguire il collegio dei presbiteri, come gli apostoli, e che nei diaconi deve onorare la legge di Dio. Dunque, sia pure nel suo stile entusiasta, Ignazio nomina “un collegio di presbiteri”.POLICARPO DI SMIRNE. († tra il 155 e il 166).”C’imbattiamo con lui in un portavoce autorevolissimo della tradizione apostolica, essendo stato ancora – secondo la chiara asserzione del suo discepolo Ireneo – in un diretto rapporto con diversi apostoli e conoscendo, perciò, perfettamente la narrazione da loro fatta quali testimoni oculari della vita e dell’insegnamento del Signore”.[2] Di lui è rimasta una lettera scritta alla chiesa di Filippi ed un frammento di una lettera pastorale.
L’organizzazione della Chiesa
Alla fase cherigmatica dei primissimi anni, in cui l’annuncio di Dio era confortato dalle persone che avevano conosciuto Gesù, succede la fase catechistica. cioè quella della esposizione più ragionata e sistematica della fede.Ci sono, infatti, delle legittime domande degli ascoltatori cui rispondere: questo passaggio è già visibile nella testimonianza delle lettere di S. Paolo. La catechesi dei primi secoli, a sua volta, non sarà organizzata in una precisa disciplina. Ma tutto nella vita di quel periodo (liturgia, catechesi, strutture) cresce con la vita, giorno per giorno, anno per anno, e sempre con il cuore dei credenti volto al modello evangelico di carità e comunione.
L’impressione è che, in confronto allo sviluppo della teologia, nel periodo post-apostolico, il progresso nel completamento della struttura ecclesiastica sia incomparabilmente più ampio ed importante. E la cosa è normale e credibile: era la vita che premeva; una vita “nuova”, non solo nell’intento teorico e nel dettato dogmatico, ma anche nelle forme esteriori del rapporto quotidiano con la gente, con la politica, con il lavoro, con la famiglia, con la cultura.I cristiani si raccolgono in comunità: le chiese locali. Ciascuno si raduna con i propri “fratelli” per la celebrazione dell’Eucarestia, si preoccupa dei poveri, assiste i carcerati, educa o collabora per la crescita dei catecumeni. Ci sono liste di vedove, di poveri, di presbiteri. Lista o canone (kanon) cioè un elenco di persone o di incarichi.È questo il primo significato del termine “canonico”, presso ogni chiesa: registro, cioè, dei presbiteri che esercitavano la loro funzione presso una determinata chiesa (oppure: registro dei poveri o delle vedove che la chiesa assisteva).
Essi erano iscritti “en to kanóni”.[3]Il concilio di Nicea, in seguito, fisserà per i presbiteri la norma della stabilità, in modo da creare per la chiesa una sorta di garanzia e regolarità del servizio religioso. Ma già nel 305, nel meno conosciuto concilio di Elvira, si prospetta per i vescovi, i presbiteri e i diaconi la norma del celibato: “Fu deciso di imporre ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, o comunque a tutti i chierici addetti al ministero, di astenersi completamente dai rapporti coniugali e di generare figli; chiunque, invece, continuerà a farlo, sarà radiato dall’onore dell’ordine clericale”.[4] Il celibato, in realtà, si affermerà molto lentamente; si tratta di un carisma che si vuole estendere come legge e come sistema. Ma quello che importa a noi è notare come la premura per la vita comune del clero porti a prevedere anche il celibato per il clero stesso.”A Roma case private venute in possesso della chiesa per donazione o per lasciti furono sistemate per abitazione di presbiteri (eventualmente con altri ecclesiastici) e diventarono centro dell’attività pastorale. Verso il 300 esistevano a Roma da 16 a 20 di queste chiese cosiddette “titolari“. (Titulus in origine era la tavoletta che indicava il nome del proprietario di casa, più tardi il nome del martire o santo famoso).Si attribuisce a papa Fabiano (236-250) la divisione di Roma in sette distretti amministrativi, affidati a sette diaconi”.[5] Sembra che in ogni titolo vi fossero degli ambienti destinati ad abitazione per il clero.
Se si compie una visita alle catacombe “Ad Decimum“, di Roma, vi si possono osservare, vicinissime l’una all’altra, tre tombe: in una è deposto “Ianuarius diacomus“, in un’altra “Profitius lector” e nell’altra ancora “Faustus exorc.”. Probabile la conclusione che ivi vivessero insieme dei chierici, che poi, insieme furono sepolti.Con il moltiplicarsi dei fedeli, anche i chierici si erano moltiplicati e le chiese cittadine avevano un clero numeroso. In ogni titolo si trovava almeno un presbitero, ma più spesso due o tre ed anche quattro: in questo caso il primo di essi era il titolare e si chiamava “prior“, gli altri: “secundus“, “tertius“, ecc. Dei chierici inferiori, ciascun titolo aveva almeno un lettore.[6]Altro elemento che contribuì all’instaurazione della vita comune fu l’amministrazione dei beni ecclesiastici da parte del vescovo. È noto che l’offerta spontanea dei fedeli era inizialmente per la chiesa l’unica fonte delle sue entrate. La prima chiesa di Gerusalemme viveva di offerte (At. 4,34 ss.) e S. Paolo parla di collette domenicali fatte nelle chiese di Galazia e di Corinto (1 Cor. 16). Oltre che in denaro, erano anche offerte cose e frutti in natura, primizie e decime, come fa fede la Didaché (c.13), che richiama la legge mosaica al riguardo. S. Giustino ricorda la prassi invalsa e la distribuzione delle offerte (Apologia, 1,67). Erano, queste, le offerte ordinarie, fatte la domenica in occasione della riunione liturgica. Tertulliano parla di una cassa comune, formata da libere contribuzioni mensili[7] …Ogni chiesa aveva la cassa della comunità”.[8] E con queste riflessioni sulla organizzazione della chiesa, che piano si dispiega, abbiamo portato qualcosa di più convincente che non le prove indirette ed allusive. Tuttavia le prove documentali sono del terzo secolo. Ad ogni modo si può ragionevolmente pensare che la vita comune del clero era l’unico e il vero progetto di vita all’inizio della chiesa. I sacerdoti, cioè, non vivevano isolati e separati, ma “insieme”: annunciavano e davano concreto esempio della comunione voluta da Cristo e praticata dai primi cristiani intorno agli apostoli.
Catecumenato e liturgia
Una pista importante per osservare e comprendere la vita e l’organizzazione dei primi cristiani e quindi le loro scelte e i loro orientamenti è quella dello studio del catecumenato e della liturgia. Anche essi ci testimoniano dello slancio comunitario della chiesa delle origini. “Catechumenus“, dice Tertulliano, è colui che per nascere a vita nuova ricerca una formazione dottrinale adeguata e si esercita concretamente nelle virtù cristiane.[9]Il catecumenato impegnava tanto i candidati quanto coloro che si adoperavano per la loro preparazione. Adrien Nocent fa ripetutamente osservare che “chi battezzava e colui che dovrà esserlo”, digiunano uno o due giorni prima del battesimo, insieme, accomunati nella tensione verso la meta di fede.[10] Lo testimoniano la Didaché, Tertulliano, Ippolito di Roma. Le prime testimonianze di uria organizzazione catecumenale e della iniziazione cristiana, dunque, presentano un taglio di vita di profonda partecipazione comunitaria, nei momenti salienti della intera comunità cristiana.
E l’Eucarestia?
Clara Burini ha un interessante capitolo sulla “Concelebrazione Eucaristica“. “E’ proprio l’aspetto assembleare, il “convenire” il partecipare di tutti i fedeli, insieme al “presidente“, attorno ad una stessa mensa, o ad uno stesso altare, che ci permette di parlare, per così dire, di “concelebrazione eucaristica” e non di semplice partecipazione, né tanto meno, di presenza”[11] Dice la Didaché: “Riuniti nel giorno domenicale del Signore, spezzate il pane e rendete grazie (euchearistesate) dopo aver confessato le vostre colpe, affinché sia puro il vostro sacrificio”. (10,6); cioè ad ognuno che partecipa è richiesta la purezza e la santità, poiché nell’assemblea convocata è presente Dio stesso e il sacrificio dei fedeli, riuniti, non deve essere contaminato o dissacrato dalla colpa di qualche fratello. A noi, forse, è venuto meno questo stringente senso comunitario, per cui la vittoria sul peccato significava anche rispetto verso la comunità; non sentiamo nemmeno più con immediatezza, come gli antichi cristiani, e con vero convincimento che la comunità dei fedeli è sacramento della presenza del Signore. “La celebrazione di un’unica eucarestia in una comunità «costituisce un ideale al quale si tende decisamente”;[12] ma non in senso astratto, come ai nostri giorni, bensì con la fattiva e concreta realizzazione della vita e nella vita.
Questo dimostra, allora, che il clero in quei tempi conduceva vita comune? Forse non abbiamo una “dimostrazione” come due più due fan quattro; tuttavia i tanti segnali che abbiamo accumulato parlano abbastanza palesemente “di vita comune”.Il clero viveva intorno al proprio vescovo, era iscritto in un elenco, era impegnato a preparare al battesimo, a celebrare l’eucarestia con la comunità, a celebrare sempre comunitariamente la penitenza, ad assistere i poveri e ad amministrare i beni della chiesa. Tante esigenze che reclamavano una presenza continua, garantita soltanto da una forma di vita in comune. Dottrina e prassi alimentavano la comunione fraterna.Col venir meno degli apostoli, la chiesa fa capo al vescovo; e: membri de! presbiterio rimangono i suoi collaboratori, con lui impongono le mani, concelebrano, oppure celebrano al suo posto. In questa collaborazione ministeriale del presbiterio col proprio vescovo possiamo vedere, se non la dimostrazione, certo il germe della vita comune del clero.
Capitolo SecondoI primi esempi di vita comune del clero
Dire che il progetto di vita della chiesa delle origini prevedeva la vita comune (anche e soprattutto per il clero), non significa che in realtà questa sia stata attuata sempre e dovunque. Così come il Battesimo esige che i cristiani entrino nella “vita nuova”, che è dono dall’alto; ma dire che il battesimo lo esige, non significa che i battezzati realizzano la vita nuova, in coerenza col proprio battesimo. La vita comune era, comunque, voluta, proposta, desiderata, ed anche attuata in forme spontanee, familiari, volenterose.I primi tempi della chiesa furono tempi creativi, carismatici ed anche difficili. Tra le difficoltà che non fecero applicare in pieno gli ideali della vita apostolica, di solito vengono nominate le persecuzioni. Esse obbligarono il clero ad una vita instabile, clandestina e separata, perché minacciata. Le persecuzioni rappresentano un capitolo coraggioso e ineguagliabile della storia della chiesa: anche un tantino romantico e forse supervalutato.
Grande difficoltà portò anche il problema della inculturazione della fede, anche a motivo della rapida accelerazione delle conversioni (volontarie e forzate).Nel II secolo la “Lettera a Diogneto” (5,5) diceva: “Ogni cristiano risiede nella sua patria, ma come uno straniero domiciliato…Ogni terra straniera per i cristiani è una patria ed ogni patria è una terra straniera”. Questa contrapposizione tra “cristiani” e “pagani” sarà ripresa e marcata dagli Apologisti e porterà alla classificazione tripartita della gente: Pagani (cioè: Romani e Greci), Giudei e Cristiani. Quindi i cristiani non si sentono integrati nel mondo, ma piuttosto separati ed in opposizione (senza calcare troppo in simili classificazioni).Mentre nel secolo V-VI “Romanità” vorrà dire “Cristianità“; rappresenterà l’insieme dei cittadini che hanno sulla terra: Roma cristiana, come capitale, mentre aspirano alla patria celeste. Un bel cambiamento! Ma la chiesa risolse brillantemente il problema della inculturazione, sia per la carica di fede che la sorreggeva, sia per la semplicità ed immediatezza delle scelte concrete. Tuttavia il problema in sé non poteva contribuire alla stabilità ed omogeneità della vita; per cui non sempre e non dovunque vi fu la vita comune.
Il Monachesimo
La vita comune (cenobitica) esce dal generico e balza come autentico progetto di vita col nascere del monachesimo.”Il movimento monastico cristiano iniziò talmente in sordina, che gli storici fanno talvolta fatica a descriverne le origini con esattezza. Gli studi recenti, però, hanno evidenziato come il fenomeno monastico è apparso, nel corso della seconda metà del III secolo, in diverse aree della cristianità in maniera autonoma e simultanea”.[13]”I vescovi furono generalmente favorevoli al monachesimo e intervennero con nuove leggi di vigilanza. Lo stato ecclesiastico, eminentemente apostolico, non pareva compatibile con la vita eremitica, ma nelle città si ebbero anche sacerdoti monaci, per quanto la caratteristica del monachesimo fosse quella di essere laico”.[14] Vi furono vescovi che, non solo conobbero, ma praticarono anche il monachesimo prima di essere eletti alla dignità episcopale: se ne conoscono di quelli che fondarono monasteri dove risiedevano, per poter continuare con i monaci la vita comune.Ricordiamo alcuni di loro, particolarmente conosciuti e famosi: S. Ilario (†367). vescovo di Poitiers; S. Basilio (†379); S. Martino (†100) vescovo di Tours: S. Epifanio (†103) vescovo di Costanza (= Salamina) di Cipro.La vita monastica non è la stessa cosa che la vita comune del clero, certamente: tuttavia non è nemmeno facile o giusto separarle nettamente o addirittura contrapporle.
La vita del monaco, pur nella sua austerità, non era incompatibile con la permanenza nel mondo; le condizioni di ingresso alla vita monastica non erano precisate e le prime “regole”, rudimentali, non ne parlavano e di fatto non era infrequente il caso di sacerdoti che erano contemporaneamente monaci; le differenze tra un cristiano serio e un monaco erano di sfumature e il monaco poteva essere chierico. In realtà la vita comune si manifestò anche nel clero nel medesimo tempo del monachesimo (nella forma austera e severa del monachesimo, ma rispettando la natura pastorale del clero). Abbiamo – documentati – almeno gii esempi di due vescovi, che vollero la vita comune per il proprio clero nelle rispettive diocesi: S. Eusebio, vescovo di Vercelli. S. Agostino, vescovo di Ippona. Forse si dovrebbe nominare anche S. Zeno (†372) vescovo di Verona, il quale parla dei suoi collaboratori nel ministero come di “operai che stanno con me”[15], l’espressione suggerisce una forma di vita comune, ma da sola non ha forza dimostrativa. Anche S. Gerolamo potrebbe essere incluso tra coloro che promossero la vita comune del clero: personalmente ebbe esperienze monastiche, però suggerì vigorosamente la vita comune e il distacco dai beni anche ai chierici.
I primi testimoni della vita comune del clero
S. Eusebio (†371), vescovo di Vercelli. Nativo della Sardegna, fu lettore della chiesa di Roma e dal 345 primo vescovo di Vercelli. Per le controversie ariane fu perseguitato e mandato in esilio: in Palestina, in Cappadocia, in Egitto. Questo peregrinare gli permise di conoscere la vita degli anacoreti e i monasteri dei cenobiti. Quando tornò in patria, a differenza degli altri vescovi, che diffusero la vita monastica nelle loro diocesi, Eusebio l’introdusse tra il suo clero, adattandola naturalmente alle esigenze del ministero sacerdotale. Lo sappiamo dalla lettera che S. Ambrogio indirizzò (verso il 396) al clero di Vercelli: ”Se nelle altre chiese l’elezione di un vescovo costituisce un grave problema, in quella di Vercelli si richiede un impegno ancora più grave; difatti dal suo vescovo si esigono contemporaneamente l’austerità di un monaco e l’adempimento dei doveri sacerdotali. Primo tra tutti in Occidente, Eusebio di santa memoria, unì fra sé questi due ordinamenti diversi; cioè, stabilitosi in città, mantenne l’ascetismo dei monaci e resse la chiesa con austerità…
Giustamente il mondo lo osservava per imitarlo”.[16] Non si conoscono altri dettagli sull’istituzione eusebiana, non si sa nemmeno se essa si mantenne e per quanto tempo tra il clero di Vercelli, dopo la morte del santo vescovo. Siamo, invece, informati più abbondantemente sull’attuazione della vita comune tra il clero realizzata dal grande S. Agostino di Ippona.S. Agostino (351-130): non è il caso di ribadire l’eccezionalità della sua figura, sia per la storia della chiesa sia che per quella della cultura in genere; Agostino appartiene ai geni dell’umanità. Ciò che a noi interessa in modo particolare è mettere in luce come il santo sia vissuto con il suo clero. Infatti la vita comune del clero è legata al suo nome. La sostanza del suo esempio si trova descritta in due discorsi che egli stesso tenne al popolo verso la fine della sua vita. Gli furono ispirati dal famoso e doloroso caso del prete Gennaro, che era vissuto con lui nello stesso monastero dell’episcopio di Ippona e che prima di morire aveva fatto testamento, contravvenendo, così, alla regola fondamentale della vita comune di non disporre di beni. “Sapete tutti, o quasi, come noi viviamo in episcopio, cercando di imitare per quanto ci è possibile, quei santi di cui parlano gli Atti degli Apostoli: nessuno considerava proprio ciò che possedeva, ma tutto quello che avevano lo mettevano insieme… Perciò volli accanto all’episcopio un monastero di chierici… Il chierico ha assunto in sé due impegni: la vita consacrata e il servizio clericale… (Serm. 355). I presbiteri… sono i poveri di Dio.
Nulla hanno portato a questa nostra casa se non la ricchezza che abbiamo più cara: la carità. A chi vuole riservarsi delle proprietà e vivere di queste, comportandosi, così in modo contrario alla nostra regola, non basta che non permetta di rimanere con me: non intendo neppure che sia chierico”. (Serm.356).La pratica della vita comune del clero, difesa da un “patrono” tanto ascoltato e venerato si diffuse ovunque, non solo nelle regioni dell’Africa, ma anche oltre mare, portatavi dai figli spirituali di S. Agostino. Lo testimonia Possidio, che fu tra i primi discepoli che si raccolsero intorno al santo nel monastero di Ippona e che fu successivamente vescovo (di Calama, nella Numidia proconsolare) e biografo di S. Agostino.Quando il santo, il 28 agosto del 430, finì la sua vita terrena, Ippona era assediata dai Vandali. Il 19 ottobre del 439 anche Cartagine fu presa da essi e su tutta l’Africa settentrionale si scatenò, furiosa, una persecuzione del re Genserico, ariano fanatico, contro la chiesa cattolica. Con la dispersione dei vescovi e dei sacerdoti, sparì anche la vita comune in quella parte del mondo.Questa, però, era stata amata ed altamente apprezzata come un tesoro, aveva trovato seguaci anche oltre i confini africani; la dispersione del clero africano nei paesi mediterranei contribuì a rinfocolarne la diffusione.Nella Gallia meridionale, in particolare, ma anche in altre nazioni, la vita comune del clero fece presa.
Ne è prova l’opera di Giuliano Pomerio “De vita contemplativa“.[17]Giuliano Pomerio (†nei primi anni del VI secolo) era nativo della Mauritania (Africa del Nord), venne nelle Gallie e si fissò ad Arles, dove fu ordinato sacerdote. Probabilmente egli presiedeva, ad Arles. una associazione o gruppo di chierici, riuniti in vita comune. Sulla vita comune egli riflette nell’opera citata, che può essere definita come una specie di regola pastorale per il clero. Vale la pena di fermarci un poco su di essa, sia perché citata poco di frequente, sia perché ci aiuta a far luce sulla vita del clero dell’epoca. Essa ci documenta almeno tre cose:
1) che durante la seconda metà del secolo V la vita comune del clero, con la perfetta rinuncia al possesso, era praticata nelle Gallie, segnatamente ad Arles.
2) Esaminando i consigli che l’autore dà a coloro che non hanno l’animo di distaccarsi completamente dai loro beni, si deduce che vi fosse anche una forma di vita comune più blanda, cioè non quella che S. Agostino difendeva (probabilmente era consentito il possesso parziale o totale dei propri beni terreni).
3) Infine l’autore propugna come ideale di vita per il clero in genere, cioè per tutto il clero, il distacco completo dai beni ed esorta alla povertà volontaria: chi si dedica al ministero sacerdotale distribuisce i suoi beni ai poveri, dice, oppure alla chiesa da cui dipende e da essa riceverà il necessario per vivere.Discepolo ed amico di Giuliano Pomerio, fu S. Cesario (471/472-543), poi vescovo della stessa Arles in un momento di grande importanza politica, quando, alla rovina definitiva del mondo romano, si andavano consolidando i regimi dei nuovi popoli (Ostrogoti, Visigoti, Burgundi, Franchi…). S. Cesario aveva avuta una esperienza monastica, a Lérins; per questo, forse, aveva una particolare sensibilità per la vita comune del clero. Contemporaneo, vescovo di una grande chiesa, quella di Tours, vi era S. Gregorio (circa 538-594), chiamato appunto di Tours, altro difensore e propagatore della vita comune del clero.
Vita comune = “Vita Canonica”
Tutti questi esempi riportati si rifacevano al regime di vita comune di cui aveva scritto Giuliano Pomerio; cioè di chierici: tra i quali, c’era chi rinunciava a tutto e chi conservava, in tutto o in parte, i propri beni. Alla base, però, c’era la vita comune: la mensa, la preghiera, il lavoro pastorale, a volte il lavoro per la formazione del giovane clero in una specie di seminari-monasteri domestici.La vita comune era influenzata dalla vita monastica locale, oppure era animata dallo zelo pastorale del vescovo o dal prelato che vi era preposto. Non esistevano “regole” particolari, di conseguenza non c’era un modo univoco di concepire la vita comune del clero. Era definita genericamente “Vita Canonica“, nel significato di vita regolata, vita secondo certe norme, vigilata, non scapricciata secondo il volere di ciascuno. Oltre le testimonianze citate, essa comincia ad avere l’attenzione di sinodi o concili locali, che si preoccupano della disciplina del clero e della sua formazione, soprattutto riguardo la povertà e il celibato. In particolare vanno ricordati i concili di Toledo (531; 589; 633, ecc.).
[18]Pian piano si forma l’idea che nella chiesa la forma di vita idonea alla esemplarità e alla santificazione del clero, di tutto il clero sia la vita comune, la vita canonica. Essa, cioè, non sarebbe opzionale, ma necessaria; realmente l’unica per tutti i sacerdoti. Ne abbiamo testimonianza dallo stesso papa S. Gregorio Magno (papa del 590 al 604) che proveniva dal monachesimo e aveva trasformato la casa paterna sul colle Celio (ad Clivum Scauri) in un monastero. Quando fu papa, seguendo l’esempio del predecessore S. Leone Magno, esigeva che i candidati alla vita ecclesiastica passassero un periodo di probazione in qualche monastero. Ciò fa supporre che il santo pontefice tentasse di abituare il clero alla pratica della vita comune.San Beda il Venerabile, in proposito, ci riferisce che a S. Agostino di Canterbury (l’apostolo dell’evangelizzazione dell’Inghilterra), che lo interrogava sulla disciplina da applicare al clero, il papa rispose: “Devi applicare lo stile di vita che all’inizio della chiesa adottarono i nostri padri: essi non reclamavano beni personali, avevano tutto in comune.[19]La parola “canonico” o “vita canonica” non fa riferimento ad un particolare ordine religioso di canonici. In questo periodo della storia, che va dal secolo V al secolo XI, si può parlare genericamente di Istituzione canonicale come di una forma di vita de! clero o di una spiritualità di esso, che viveva con impegno la vita comune, secondo la volontà della chiesa.
“La prima menzione giuridica di un canonico appare nel VI secolo, quanto il concilio di Clermont nel 535, precisa le funzioni del chierico. Gli obblighi del suo stato sono: la recitazione delle ore liturgiche, la fedeltà perseverante alla propria chiesa, l’ubbidienza a! vescovo”.[20]“L’esistenza di queste comunità canonicali è accertata per lo meno nel secolo VIII, infatti S. Egberto, vescovo di York, (732-766) afferma: chiamiamo canoni le regole scritte dai nostri santi padri; in esse vi è contenuto quanto debbono osservare i canonici regolari”.[21] In questo caso la parola canonico viene fatta derivare dal greco di “canon-regola“, come spesso avverrà; in realtà, abbiamo visto, “canon” vuol dire anche elenco, lista, matrice, misura, ecc; e il primo significato che si incontra nella storia della chiesa è appunto questo, per cui “canonico” significa: un chierico iscritto nell’elenco di una certa chiesa locale.
“La stessa espressione ‘canonico regolare’ appare per la prima volta nelle Costituzioni di Galtero, arcivescovo di Sens (8S7-923)”.[22] Lo stabilizzarsi del vocabolario è indice di un costume di vita ormai stabilizzato: conosciuto e praticato. Ormai si delinea nella chiesa il convincimento che non esistano altre forme di vita, per il clero, oltre quella monastica o quella canonicale.
Capitolo TerzoLe prime regole canonicali
Dal secolo VII si afferma lentamente una crescente distinzione tra vita monastica e vita canonicale: la professione monastica, infatti, esige una prospettiva di separazione totale dal mondo, mentre la vita canonicale esige efficienza apostolica. Nel 633, il già citato concilio di Toledo chiedeva una vita comune dei chierici, anche se blanda e mitigata, non esigendo la comunione dei beni.Ma la vita comune trovò difficoltà, non solo perché è pur sempre ardua in se stessa e asceticamente impegnativa, ma anche a motivo delle condizioni politiche del tempo.Vescovi e abati venivano nominati sempre più frequentemente sotto il controllo dei principi e dei signori e quindi erano legati, spesso, ad interessi economici e politici. Il loro stesso ruolo a volte li portava ad occuparsi di frequente e magari anche in modo preponderante di attività materiali e mondane. Perciò non sempre erano all’altezza del compito morale e spirituale, a volte anche dottrinale. Gli obblighi politici (feudali) li tennero, spesso, lontano dalle loro sedi, per servizi di corte, ambascerie, o anche per seguire sul campo le truppe, che dovevano mettere a disposizione del signore.La vita comune nasce e si alimenta da una spinta ascetica: non poteva trovare alimento in simili condizioni; e, d’altra parte, l’abbandono della vita comune portava il clero al rilassamento. Un pericoloso circolo vizioso.C’è, comunque, da sottolineare anche un concetto che ha il suo peso, cioè che i canonici da parte loro non avevano simpatia per la povertà assoluta, preludio di una vita comune radicale di tipo monastico, che limitava e non rendeva del tutto libera la presenza pastorale: questo ideale si affermerà più tardi, al tempo della “riforma gregoriana”, ma staccherà i canonici dai vescovi.Ci furono dei tentativi per mettere ordine o per lo meno di portare contributi chiarificatori, sia per quanto riguarda l’aspetto giuridico (la natura del “canonico“), sia per l’aspetto morale (il minimo necessario alla vita canonica).
La più antica regola canonicale: S. Crodegango
S. Crodegando (712-736), nato ad Hesbaye (Belgio), formato in un monastero benedettino (Saint-Trond), divenne cancelliere del re Carlo Martello e poi vescovo di Metz (dal 754). Fu un uomo di grande pietà e zelo. Riunì intorno a sé il clero della sua cattedrale e compose per esso una “regola” per la vita comune, che ebbe larga diffusione ed è la più antica regola canonicale.I tempi erano maturi. Diversi decreti o prescrizioni sinodali o di concili locali avevano chiesto che: chierici, sacerdoti e vescovi vivessero secondo “i canoni degli antichi padri”; e gli abati e i monaci secondo la regola di S. Benedetto.Nel comporre la sua regola, Crodegango attinse largamente a quella di S. Benedetto (era stato educato in un monastero benedettino), ma trasse anche ispirazione dalla S. Scrittura, dai canoni dei concili, dagli scritti dei Padri.Nei suoi 34 capitoli, regolamenta minutamente tutto ciò che riguarda la vita comune, le occupazioni giornalieri e i doveri del proprio stato per i canonici. Questi sono chiamati: “clerici“, “canonici“, “clerici de ordine canonico“, “fratres“.
La vita di questi canonici, per quanto riguarda le osservanze liturgiche, quelle ascetiche, la clausura, il capitolo giornaliero, è ordinata in modo piuttosto austero, sul modello della vita monastica. Più permissiva è, invece, questa regola, per quanto riguarda la proprietà privata: i canonici dovevano fare donazione dei loro beni immobili alla chiesa, conservandone l’usufrutto, mentre restavano proprietari di quelli mobili e di tutto ciò che veniva loro donato. Non che non conosca o non apprezzi l’ideale agostiniano della completa condivisione dei beni: nel capitolo 31 parla dei “canonici che possono lasciare tutto per amore di perfezione”, questi poveri volontari saranno mantenuti dal vescovo. Anzi: Crodegango afferma che questo sarebbe il vero ideale: “ma ai nostri tempi non può essere prescritto in modo persuasivo”.Questa regola era destinata soltanto per i canonici di Metz. Ma, come già ricordato, si diffuse rapidamente; segno che era venuta a colmare un’attesa e corrispondeva ad una sensibilità culturale e spirituale che i tempi vivevano. Ne comparve anche una redazione ampliata, destinata alle altre chiese.
Gli effetti di questa “regola” furono indubbiamente notevoli. Il primo fu che introdusse il genere di vita monastica, in modo preciso ed esigente, nella vita del clero, quasi a ribadire che non si può disgiungere l’esempio personale dal compito pastorale. Si può discutere se la spiritualità presbiterale coincida effettivamente e comunque con quella monastica; ma è una dimensione, questa, della nostra problematica attuale, non di quella del tempo di Crodegango: non si può mettere in discussione i grandi meriti che l’ascesi monastica ha avuto anche nella vita del clero, per la sua disciplina e per la sua spiritualità.Il secondo merito sembrerebbe quasi contradditorio al primo ed è consistito nel fatto che la regola di Crodegango valse a distinguere sempre più la vita canonica da quella monastica; nel senso che fa comprendere che alcune osservanze sono solo per i monaci ed altre solo per i canonici.Saranno queste le uniche due forme della vita comune, fino al comparire degli ordini mendicanti. Si deve anche osservare che tra la vita canonica e la vita monastica c’è stata una continua osmosi; infatti, nel medesimo tempo in cui i canonici prendono forme di vita monastiche a sostegno della propria spiritualità, i monaci cercano il sacerdozio per la loro. Lo esigevano, infatti, la vita liturgica e il desiderio ed anche la necessità di apostolato. Non bisogna mai radicalizzare le cose, soprattutto nel giudizio sereno sulla vocazione alla santità.
Ascesi ed apostolato sono dimensioni che appartengono a tutta la vita cristiana; alcune forme di vita accentuano e privilegiano una dimensione (contemplativa o ascetica), altre, invece accentuano e privilegiano un’altra (apostolato o missione); ma senza esclusivismi. Inoltre l’apostolato, per noi significa quasi esclusivamente la cura delle anime, magari nella vita parrocchiale, mentre in antico era apostolato anche il servizio liturgico solenne, il pregare per il popolo di Dio. il restare a disposizione per la confessione, ecc. Attività più congeniali ai grandi monasteri, che erano punti di riferimento e di attrazione spirituale.
La regola di Aquisgrana
La regola di S. Crodegango, anche se adottata da altri vescovi per le loro chiese, fu fondamentalmente un’iniziativa privata. I problemi dell’epoca esigevano, invece, ben altri interventi: a volte non si capiva più se taluni religiosi fossero dei chierici o dei monaci. Essi, maliziosamente, ci giocavano sopra per coprire la loro vita poco esemplare. Il concilio di Magonza (813) prescriverà che i vescovi visitino tutti i monasteri della loro diocesi e insieme con l’abate interroghino i singoli monaci per sapere da loro, in tutta sincerità, quale regola volessero seguire.Interverrà lo stesso imperatore. Già da parte di Carlo Magno la chiesa era stata oggetto di costanti premure, con successivi interventi. Proprio nell’ultimo anno della sua vita aveva promosso un’intensa attività conciliare; oltre quello di Magonza già ricordato, altri quattro concili furono celebrati (Reims, Tours, Chalons, Arles) “per correggere la vita delle chiese” (“super statu ecclesiarum corrigendo”).Suo figlio, Ludovico il Pio, continuando l’opera del padre, volle intensificare la riforma di tutto il clero ed estendere la vita comune a tutte le chiese.
Lo stato canonicale è ormai una forma di vita consolidata, una istituzione a cui si pensa di dare una disciplina più sistematica. Venne, così, alla luce un’altra regola canonicale, denominata “regola imperiale di Aquisgrana“, o di Aix-la-Chapelle, secondo la denominazione francese dell’epoca carolingia; detta anche “regola omonima“.La redazione della regola è contesa tra Amalario di Metz e Ansegiso di Saint Wandrille, ambedue personaggi di riguardo del tempo; ma non è molto importante sapere chi dei due abbia veramente scritto la regola. Essa contiene 145 capitoli, dei quali 118 (1-113 e 126-130) riportano molti canoni e decreti disciplinari dei concili (Nicea, Calcedonia, Antiochia. Laodicea), di sinodi africani e brani di padri latini (Agostino, Girolamo, Gregorio, Isidoro, Giuliano Pomerio: citato sotto il nome di Prospero di Aquitania, errore che è perseverato a lungo). Gli altri capitoli (113-125 – 131-145) trattano dettagliatamente della vita comune e della disciplina dei canonici, redatti secondo la regola di Crodegango.Questa regola, nel complesso, mitiga quella di Crodegango; soprattutto è più permissiva ed indulgente in materia di proprietà privata; ha, così, il torto di elevare a principio una situazione che in precedenza, nella regola di Crodegango, era soltanto tollerata. Ma il suo intento era lodevole: quello di generalizzare la vita comune del clero, che si voleva come unico modello di vita per il clero.
Certo, c’è da chiedersi con quanta concretezza si potessero attendere frutti buoni con delle premesse talmente timide e di compromesso. Infatti, esigenza irrinunciabile della vita comune è l’uguaglianza fondamentale tra i membri della comunità. Le distinzioni e i privilegi creano distanze classiste e dividono, perché distruggono la carità. Ma già: l’iniziativa partiva da una manovra politica più che da un’attesa spirituale; anche se tutte le iniziative possono essere strumenti della Provvidenza. Anche la vita di Ludovico il Pio non fu per niente facile; per ben due volte si dovette sottoporre alla penitenza pubblica: “qui pubblice peccat, pubblice poeniteat” (“q.p.p.p.p.”:chi pecca pubblicamente faccia penitenza pubblicamente).Tuttavia al sinodo di Aquisgrana importava soprattutto la rinascita della disciplina e della vita religiosa del clero; la vita comune sembrava il mezzo adatto. Un rigore eccessivo avrebbe potuto vanificare l’intento che la regola di Aquisgrana si era prefisso; la vita comune sembrava il rimedio contro le piaghe della simonia e del concubinato e poteva dare alla vita del clero la disciplinata serenità che restituisse credibilità. In più apriva la strada verso la riconquista della libertà del clero stesso. Infatti, se i chierici dipendevano dal signore, che concedeva loro sostentamento e protezione, diventavano “in toto” sudditi del signore e finivano per avere ridottissimi contatti col proprio vescovo. E ancora, il riscatto della libertà del clero nella vita comune, elevava il tono culturale e portava rinnovamento e dignità nella liturgia e nella testimonianza, che si compivano in comunione.Il sinodo di Aquisgrana si occupò anche delle canonichesse: propose una regola anche per loro, più breve (di soli 28 capitoli), sulla falsariga della regola per i canonici.
Come valutazione globale di queste due regole canonicali (quella di Crodegango e quella di Aquisgrana), si può dire che, pur con tutti i limiti e le pecche vistose che abbiamo segnalato, soprattutto le concessioni sulla proprietà, hanno avuto il merito di salvaguardare l’ideale comunitario; inoltre hanno saputo adattarsi alle condizioni del tempo: come dire che le concessioni che addebitiamo loro come difetti, in realtà sono state, por altri ì versi, espressione di sagace discernimento sulla difficoltà dei tempi e della mentalità corrente.Invece il loro limite più preciso è quello della loro origine, cioè il clima socio-politico che le ha fatte nascere (più visibile nella regola di Aquisgrana): clima di compromesso, nel tentativo di salvare il salvabile. Quando la logica di una riforma è di tipo amministrativo, per forza di cose, diventa calcolatrice, con scarso respiro interiore. Si contenta di una resa disciplinare, ma non apre vasti orizzonti di speranza.Il sinodo di Aquisgrana fu celebrato nelI’817; diede il suo notevole contributo alla vita canonicale anche per un altro motivo: la sua disciplina si adattava anche alle chiese non vescovili. E Ludovico il Pio, infatti, la prescrisse a tutte le chiese dell’impero.
Egli, inoltre, ha un merito in più, perché donava concretamente e generosamente quanto fosse stato necessario per la costruzione di chiostri e canoniche presso le cattedrali ed altre chiese: il suo zelo gli meritò giustamente il titolo di “Pio” con cui è passato alla storia.La regola di Aquisgrana restò a lungo in vigore; vi contribuì anche l’opera di imperatori e pontefici, di vescovi e di concili, che non lasciarono di insistere per la sua applicazione. Così al concilio romano dell’826, sotto Eugenio II, ai concili di Parigi dell’829, di Aquisgrana dell’836, di Maux dell’844, di Magonza dell’847. di Soissons dell’853, al Capitolare di Lotario dell’832 e al concilio di Pavia, sotto Carlo II dell’876.[23]La lunga serie di queste date segnala un periodo di effervescenza o di inquietudine; in effetti in questi anni si cominciò a sentire l’ansia e la necessità di una riforma più approfondita e più spirituale.
Capitolo QuartoLa riforma gregoriana: canonici regolari e secolari
Due movimenti, tra sé contrapposti, costituiscono il filo conduttore che ci fa comprendere la consistenza del periodo storico che ruota attorno al fatidico anno mille: un movimento di decadenza e un movimento di riforma.È così anche per altri periodi storici; un movimento è causa dell’altro e provoca quel caratteristico cammino pendolare, tipico della storia, che ha corsi e ricorsi e dove sembra di rivivere cose già vissute. Avviene, così, che in un certo periodo si amino cose precedentemente disprezzate e viceversa. Ed ogni periodo contiene un valore e il suo contrario: non si può essere manichei nel giudizio.Il dissolvimento dell’impero carolingio, nei secoli X e XI, portò incertezza politica. Alla morte di Ludovico il Pio (840), si aprì la contesa per la successione imperiale e venne meno l’unità, alla quale, del resto, anche lui fu accusato di aver attentato, per cui era stato sottoposto a pubblica penitenza. I suoi tre figli si spartirono l’impero e così il morbo della divisione cominciò a corrodere; non era problema di semplice frazionamento, ma anche di vera inimicizia, perché non sempre riuscivano a comporre pacificamente le loro controversie. Dalla spartizione emerse e si impose pian piano la parte tedesca e perse vigore quella francese. Fu Ottone I, al di là del Reno, un fiume che fino ad allora aveva unito, ad imporsi; regnava nella parte orientale, su di una compagine di popoli o di genti: Alamanni, Sassoni. Frisoni, Turingi, Bavari.Nel 962 Ottone I di Sassonia venne incoronato e ricevette la corona imperiale a Roma. Era lui a scegliere e nominare i cardinali e i vescovi, a distribuire i diritti “comitali”, cioè: immunità, giustizia, tasse, denaro. Si può dire che la chiesa apparteneva al sovrano: “Eigenkirche”, cioè “chiesa privata”. Impose ai Romani di giurare che mai avrebbero scelto o approvato un papa senza il suo consenso o quello di suo figlio.In quel momento il papato è esangue. Dall’800 al 1049 si succedono ben 43 papi; una media di poco più di tre anni di governo per ciascun pontefice; dunque, il papato sembra essere in balia dell’imperatore germanico.Ma, ancora una volta, la chiesa troverà energie e risorse sufficienti per auto-rinnovarsi, mediante l’opera di riforma promossa, oltre che dai papi, anche da eminenti figure di vescovi e alimentata da quanti, chierici o monaci, vivevano sotto una “regola”. I fermenti vitali di rigenerazione erano tutt’altro che spenti.
Ildebrando da Soana: Gregorio VII.
La periodizzazione tradizionale riserva al tempo e alla figura di Gregorio VII (107o – 1085) il merito della riforma della chiesa. È indiscusso che egli ne sia stato un esponente deciso, per cui è, forse, giusto che la riforma porti il suo nome: “riforma gregoriana”.In realtà l’anelito alla riforma era già evidente, ad esempio, nell’opera di S. Leone IX (1019-1054). Ma essa, bisogna ripeterlo, è il risultato di sforzi molto anteriori, dovuti a molti personaggi. Come dimenticare l’opera del monastero di Cluny, fondato nel 910, o quella, vibrante, di S. Pier Damiani, morto nel 1072? Inoltre la riforma si affermerà molto lentamente, quasi una riforma “a scoppio ritardato”. Quando, nel tempo, saranno ripensati ed assimilati i suoi inviti e le sue problematiche, la riforma diventerà vita e porterà una ricca spiritualità.il papa Gregorio VII viene, comunque, designato come il promotore di questa riforma.Egli si preoccupò di salvaguardare la libertà e l’autonomia della chiesa; per questo ragionò, innanzi tutto, di distinzione tra potere ecclesiale e potere politico. La lotta che si combatteva, detta “lotta per le investiture” (dei vescovi e superiori religiosi, da parte dell’imperatore, ma anche dell’investitura dello stesso imperatore da parte del papa) non era che il fatto esterno su cui si scaricarono quelle tensioni e quelle contraddizioni.
I due poteri, infatti, si basavano su un rapporto di vassallaggio, che comportava un obbligo di fedeltà, garantito da motivazioni sacrali.L’imperatore rivendicava la sua autorità da Dio e si proclamava “defensor fidei“; Gregorio ricordava all’imperatore che il legame di fedeltà da parte dei sudditi verso l’imperatore stesso poteva essere sciolto dall’autorità spirituale. Questo, diciamo, era “il nocciolo duro” della questione. Ma il papa aveva anche molte e precise questioni da riscattare e da sciogliere. Le più vistose erano: 1) il diritto di nominare i vescovi; 2) la compravendita delle cariche ecclesiastiche, con cui i signori feudali controllavano l’episcopato; 3) il matrimonio dei preti, per cui il clero restava legato alla struttura feudale, tramite la successione ereditaria.Il momento saliente della riforma venne visto nella celebrazione del sinodo lateranense del 1059. Ildebrando è arcidiacono, influente ed ascoltato; il papa è Nicolò II. Egli, Ildebrando, prende la parola nell’assise, denunciando i mali della vita poco esemplare del clero; invita l’assemblea a prendere posizione contro i capitoli 115 e 122 della regola di Aquisgrana; fa la proposta di chiedere al chierico il giuramento di servire la chiesa con fedeltà alla “regola canonicale“, offrendo se stesso e i propri beni per l’uso e il mantenimento dei fratelli, come avveniva “nella chiesa primitiva”.
Luci ed ombre
A parte la riprovazione dei due testi incriminati, il concilio romano, non accolse le istanze di Ildebrando. Egli, però, era riuscito a prospettarle come ideale: i preti abbiano davanti a se il desiderio della perfezione, come gli apostoli e non solo un mediocre barcamenarsi amministrativo! (Ili apostoli. come è attestato negli “Atti”, avevano preferito alla proprietà individuale il principio e la prassi della condivisione dei beni. Ora. il possedere tutto in comune, intravisto come ritorno ad una vita “vere apostolica”, corrisponde al desiderio di migliorare ed innalzare il livello religioso.Né si deve restringere l’ansia e l’ideale della riforma gregoriana al solo capitolo della proprietà (il “vivere in communi sine proprio“, questa è la suggestiva formula che affermerà e che è ancora conservata nella formula di professione dei canonici regolari; essa comprende anche la castità e il ripristino della continenza e del celibato. Questo particolare invito è perseguito e suggerito con motivazioni profondamente spirituali, di ispirazione eucaristica: il prete, se vuol fare parte del “corpo mistico”, deve alimentarsi del vero “Corpo di Cristo, presente nell’Eucarestia”. Qualche volte, infatti si danno delle spiegazioni molto riduttive e scettiche del voto di verginità; quasi che la chiesa lo abbia voluto per non frazionare il proprio patrimonio, se vescovi e preti avessero dovuto provvedere a tigli e nipoti; oppure quasi che essa fosse funzionale alla vita comunitaria: non sarebbe possibile vivere insieme se ogni prete avesse moglie e figli. La verginità si comprende solo se si ragiona in ordine “al Regno dei cieli”; in ogni epoca!Sono, questi, i germi di spiritualità che fioriranno in seguito, come tutta la riforma gregoriana; essa, sul momento, non sembrò portare risultati trascendentali, ma nel tempo lievitò la chiesa e la società.Nella teologia della chiesa, invece, si delinea l’accentramento del concetto della chiesa stessa interno alla potestà pontificia, attraverso lo strumento del diritto canonico, attraverso l’allargamento della curia romana e dei legati pontifici: esattamente una figura di chiesa che il concilio Vaticano II ha cercato di ridimensionare. “A questo punto si nota l’innovazione di Gregorio VII e dei gregorianisti a proposito delle origini. Piuttosto che l’esperienza della ‘Communio’ ecclesiale, s’introduce il magistero papale, non solo come supplenza di comunione, ma ormai come forma totalizzante la chiesa. ‘Patres’, ‘Sancti Patres’, ‘Statuta sanctorum patrum’: in ambiente romano diventano espressioni usate per indicare quasi esclusivamente i sommi pontefici e le norme da essi stabilite. Tale cambiamento d’orizzonte conferisce un volto nuovo non solo all’ecclesiologia, ma a tutta la spiritualità, in quanto si verifica uno spostamento di visuale dalla ‘Communio’ ecclesiale all’unico servizio gerarchico primaziale del vescovo di Roma. Forse ciò è sfuggito agli storici della spiritualità, essendo il problema passato direttamente dalla competenza dei medioevalisti a quella degli ecclesiologi propriamente detti. Su questo passaggio, che non temiamo di chiamare ‘epocale’, influisce ormai sempre più la perdita del rapporto ‘Parola di Dio e Chiesa’, ‘Eucarestia e Chiesa”. ‘Servizio dei vari carismi nella Chiesa’. Il tutto a vantaggio di una chiesa sempre più giuridicizzata. È sintomatico osservare come la Sacra Scrittura venga usata o strumentalizzata dai gregorianisti per affermare la unicità del sacerdozio ministeriale rappresentato dal Papa quale unica manifestazione della ‘divina pietà”.[24]
Canonici regolari e canonici secolari
Mentre il sinodo lateranense del 1059 (le cui decisioni saranno confermate in quello successivo del 1063) si era espresso in modo piuttosto cauto, anzi difensivo nei confronti del regime religioso antico, lo stesso Ildebrando (non ancora papa), S. Pier Damiani e altri predicatori si battevano perché la riforma fosse attuata. Il punto saliente era rappresentato dalla povertà volontaria e radicale. Così i canonici che restavano fedeli alla regola di Aquisgrana venivano chiamati “canonici proprietari” o “canonici saeculares“.C’era del disprezzo, o almeno della disistima, in questa espressione; ma ingiustamente, perché, in effetti, essi una regola la osservavano: appunto quella di Aquisgrana. Ad essi le tendenze riformatrici apparivano come una specie di forzatura, che violava diritti acquisiti e fino ad ora considerati perfettamente legittimi.Quelli che professavano la vita canonica nel senso stretto voluto dalla riforma, furono detti “canonici regulares“. E le espressioni: “communiter vivere“, “regulariter vivere“, “canonice vivere” furono intese sempre più come rinuncia ad ogni proprietà individuale, con le dovute eccezioni, soprattutto nei primi tempi.La divisione diverrà più netta e decisa quando i riformatori, in lotta contro la simonia e il concubinato del clero, contrapporranno alla regola di Aquisgrana quella chiamata, in genere, “regula patrum“. Questa, in realtà, non era una regola scritta, ma piuttosto una tradizione, uno spirito, che. rifacendosi alla chiesa delle origini, osservava la povertà stretta e la condivisione totale.
Ormai la ‘rottura’ fra i canonici è consumata. Saeculares saranno i canonici che vivono sotto la regola di Aquisgrana; regulares i nuovi canonici ‘in communi viventes‘. ‘Communitas’, o ‘Vita communis’, appare come l’equivalente alla ‘conversiomorum‘ o ‘regulares‘. Lo attesta la formula di professione. La rottura oltrepassa il mondo canonicale per raggiungere il mondo dei laici. Il ripristino della comunità di Gerusalemme aggrega chierici e laici nell’intenzione di riprodurre la vita degli apostoli. Quindi l’ideale della chiesa primitiva nutre tutte le attività della ‘vita attiva’; è vero che l’hospitalitas’ era stata incoraggiata dalla regola aquisgranese, ora, però, l’aiuto ai ‘sancti’ segue le orme dei discepoli degli apostoli. Un’altra caratteristica del movimento canonicale è l’assenza di un fondatore e di una regola. Ciò significa una fertile dispersione, ma anche una certa debolezza. Canonici si trovano ai primordi di Gorze, di Cluny, di Camaldoli, canonici appariranno nella Certosa, tra i ‘praedicatores itinerantes’ al bivio tra il cenobio e l’eremo, come protagonisti della vera vita apostolica. Forse i canonici non tradiscono nessuna forma di vita religiosa, perché la loro spiritualità si addice a tutte”.[25] Con l’affermarsi della riforma di cui i canonici erano come la bandiera, questi ebbero una notevole fioritura e diffusione, acquistando molte benemerenze. Durante tutto il secolo XII rappresentarono la parte più sana del ceto ecclesiastico (anche se questa e simili affermazioni di genere sintetico vanno prese con discernimento: il giudizio globale è sempre approssimativo). La mancanza di una direzione centrale (questo non vale per i Canonici Regolari Premostratensi) nell’Ordine, già osservata, ed un certo atteggiamento aristocratico, che si andò affermando successivamente tra i canonici, furono, insieme al distacco dai vescovi, i motivi che resero meno efficace la loro presenza. Ironia della sorte, il distacco dai vescovi fu causato proprio dal fatto che i canonici accettarono il rigore della riforma! Essi la accettarono, e furono isolati, perché l’insieme della chiesa non seguì. Saranno gli Ordini mendicanti a portare vitalità e freschezza tra il popolo Dio: per questo in breve tempo diventarono popolarissimi, mentre contemporaneamente inizierà la fase di declino dei canonici regolari.
Capitolo QuintoLa vita comune del clero nel Medioevo
Ma che cosa è la vita comune del clero? Con la riforma gregoriana siamo arrivati al vero spartiacque, che, nella storia della chiesa, divide il mondo dei religiosi da quello del clero diocesano. Il mondo dei religiosi (che fino al tempo della riforma gregoriana non esisteva!) si riferisce a coloro che vivono esenti da una diretta dipendenza dai vescovi, ed hanno propri superiori; il mondo del clero diocesano vuole, invece, indicare i sacerdoti alle dirette dipendenze dai vescovi. Al tempo della riforma gregoriana facevano vita comune i monaci (che erano diretti da propri superiori) ed i canonici (che fino a quel momento, vivevano insieme al proprio vescovo, salvo qualche eccezione). Dire vita comune del clero vuol dire che il clero vive insieme, condivide l’abitazione, il cibo, il lavoro, la preghiera, gli intenti, la formazione, ecc.Agli inizi della chiesa la vita comune era un movimento che coinvolgeva tutta la chiesa, cioè tutti i cristiani. Era una caratteristica della fede; i cristiani “stavano insieme”. Si riunivano per ascoltare gli apostoli o i loro successori, per pregare, per “spezzare il pane”. Inoltre si aiutavano economicamente, fino a mettere a disposizione dei fratelli i propri beni, in modo “che non vi fossero poveri” tra di loro. In una situazione di minoranza sproporzionata nei confronti del mondo pagano, ben presto avranno sentito la preziosità dello stare insieme e dello appoggio reciproco e del conforto della comunità.
C’erano domande alle quali cercare una risposta; c’erano, soprattutto persecuzioni dalle quali cercare scampo. “Guardate come si amano!”; la fede cristiana vive nell’unità. Il clero non poteva essere diverso. Anzi! Il livello di comunione, ossia la concreta realizzazione della vita comune del clero, abbiamo visto, non si può dire come avvenisse. Si può solo dire che esisteva, dai numerosi accenni degli scritti dell’epoca, ma essi non ci dicono niente più. I sacerdoti non avevano ancora l’obbligo del celibato, quindi, la loro vita comune sarà stata più o meno quella degli altri cristiani. Quando verranno gli “ordini minori” (diaconi/suddiaconi, accoliti, esorcisti, lettori, ecc.) avranno fatto vita comune: per provvedere alla loro formazione, per far fronte, insieme, ai numerosi e nuovi problemi di organizzazione (liturgia, catechesi, assistenza). Più o meno al tempo della comparsa del monachesimo, appaiono forme di vita comune di tipo monastico tra il clero, in genere attorno al proprio vescovo; anzi era il vescovo che prendeva l’iniziativa. La vita comune del clero, però, univa la vita ascetica dei monaci con l’impegno pastorale. Il movimento monastico, infatti, era laicale e quindi più separato dal mondo e più marcato nell’indirizzo penitenziale. Quando comparve la regola di Crodegango, il cristianesimo aveva molto camminato; l’esempio degli apostoli era quasi un mito, un ideale, detto “perfezione” (status perfectionis).
Se non l’ideale, si cercava almeno di salvaguardare la disciplina ecclesiastica. Il clero era chiamato a vivere insieme, magari conservando l’uso parziale o totale dei beni; ecco perché S. Crodegango dice mestamente che la povertà volontaria “non si riesce a proporla in modo persuasivo”.[26] Durante la riforma gregoriana avvenne la separazione dei canonici in regolari e secolari, a seconda che avessero accettato o meno una vita in comune comprendente la rinuncia completa al possesso dei beni. Nel frattempo i monaci accedono in forma massiccia al sacerdozio (e altrettanto faranno gli ordini mendicanti, poco dopo la loro fondazione). Inizia, in pratica, quella che oggi chiamiamo “vita religiosa”, cioè il clero distinto da quello diocesano, con propri ordinamenti e propri superiori. Quando nel 1500 nasceranno i “chierici regolari”, in pratica non porteranno altro che una differenza di vocabolario nel panorama del clero regolare (oltre, naturalmente, alla freschezza delle nuove fondazioni).
La vita comune dei canonici regolari
I canonici regolari dopo la riforma gregoriana furono obbligati dalle circostanze a separarsi dal vescovo, per seguire il richiamo della riforma, che chiedeva la povertà totale; in alcuni casi i vescovi, invece, furono i promotori di questa riforma e vissero con i propri sacerdoti, ma furono casi episodici. I canonici, dunque, divennero più regolari e meno canonici. Cosa che avverrà ad ogni ripresa, ad ogni riforma. La struttura della loro vita, della loro giornata fu, fondamentalmente simile a quella della vita monastica. In più avevano il compito pastorale, che, del resto, spesso si riduceva ad uno spirito, più che a fatti concreti.Ecco gli elementi salienti di quella vita comune.Ufficio DivinoVeniva definito “Opus Dei”. Normalmente era cantato; distribuito nelle ore del giorno e della notte, secondo l’esempio della ufficiatura monastica.Rappresentava la massima occupazione, che dava splendore e senso alle cattedrali e alle chiese maggiori. Tutti dovevano parteciparvi ed attendervi con la massima diligenza, “religiosissimo obsequio“, come dice la regola di Aquisgrana.Capitolo.Era, dopo, l’Ufficio divino, il momento più importante nella vita della comunità. Era l’assemblea quotidiana di tutti i confratelli: al mattino, dopo il canto di “Prima”. Vi si leggeva un capitolo della regola (ecco perché il nome di “capitolo”), qualche volta dei brani patristici, o altro. Il vescovo, o chi presiedeva, aveva l’occasione per dare avvertimenti o disposizioni. Pertanto il capo del capitolo non era il “primus inter pares” come a volte si intende spiegare, ma aveva un’autentica autorità sui membri e sulla vita della comunità.Pian piano il capitolo acquista la fisionomia della comunità stessa che è raccolta, non solo per ascoltare, ma anche per la propria formazione e per decidere. Far parte di un capitolo è come identificarsi con esso.Apostolato.La cura d’anime da principio era tutta nelle mani del vescovo, che si avvaleva dei membri del “presbyterium” come di suoi collaboratori, che agivano in suo nome. Mentre le chiese rurali ebbero, ben presto, per ovvie ragioni, autonomia religiosa, in città la cattedrale rimase per secoli l’unica parrocchia. I canonici esercitavano l’apostolato insieme al vescovo; e questo lo facevano sia in città che nelle periferie, o, per meglio dire nei suburbi. La vita comune, prima o dopo la regola di Crodegango o di Aquisgrana, non pregiudicava questo servizio; semmai lo garantiva. I vescovi più sensibili si premurarono di salvaguardare la vita comune del proprio clero, anche per averlo più fedele e più assiduo ai compiti di assistenza religiosa.
L’Ordine dei canonici regolari di S. Agostino
Dopo la riforma gregoriana e l’incipiente distacco dai vescovi, la vita canonicale ha sbocchi diversi.Le nuove sedi dei canonici regolari si formano attorno a chiese o cappelle, persino eremi, messi a disposizione di vescovi o capitoli favorevoli alla riforma. Nascono, così, comunità o congregazioni che si preoccupano dell’ospitalità dei pellegrini e dei viaggiatori (Gran S. Bernardo), dello studio (S. Vittore); alcune comunità canonicali organizzano forme di servizi ospedalieri (così fece S. Geraldo di Béziers, († 1123); per questo fu fondata, nel 1090, la canonica di Arrouaise, sede di una congregazione canonicale.Non tutto è opera dei monaci, come a volta è dato leggere in certe frettolose e approssimative sintesi storiche. Ancora una volta è da notare come canonici e monaci, vissuti fianco a fianco nella chiesa per secoli, abbiano realizzato una continua osmosi tra di loro, nei vari campi della vita: attività, cultura, spiritualità. Molte volte si dice: monastero, ma in realtà si tratta di una canonica; si dice: fu fatto dai monaci, ma possono essere stati canonici regolari. Qualche volta è la distanza del tempo a far confusione, molto spesso è semplicemente l’ignoranza. Alla vita canonicale della riforma occorrevano nuove leggi, vista la critica verso il permissivismo delle precedenti regole, soprattutto verso quella di Aquisgrana. E ben presto ne furono compilate di nuove. Ne ricordiamo alcune, composte da canonici regolari:Ø “Consuetudines marbacenses”, della prepositura di Marbach (Alsazia), fondata nel 1089.Ø “Ordo claustralis”, dei canonici di S. Vittore e S. Giovanni in Monte, di Bologna; un codice manoscritto che si conserva nell’archivio di S. Pietro in Vincoli e risale al sec. XII.Ø “Regula Portuensis”, dei canonici di S. Maria in Porto di Ravenna, del 1114.Ø La regola di Mortara, una congregazione fondata nel 1083.Nessuna di queste regole e nessuno dei rispettivi autori pretesero mai di fondare un ordine; anzi, normalmente intendevano aiutare i canonici a ritornare alla vita e alle norme stabilite da secoli. Introducono opportuni adattamenti e ribadiscono lo spirito serio ed austero dell’istituzione canonicale, fondandolo sulle direttive autorevoli e sullo spirito della riforma. Contemporaneamente a queste nuove regole, in modo anonimo, si va affermando la regola di S. Agostino.
Non si può stabilire se, nelle prime volte che veniva adottata, lo era come codice ispiratore della vita canonicale o come regola in senso stretto. Essa circolava in diversi testi e con varie aggiunte; senza farne la storia, diciamo che si afferma quella che oggi conosciamo come la regola di S. Agostino.[27]È un testo mirabile per semplicità e moderazione, ma anche per chiarezza ed incisività nell’esprimere l’essenza della vita comune. Diversi ordini religiosi l’adotteranno per gli stessi motivi.Nel concilio di Reims verrà proposta come unica regola per tutte le case dei canonici regolari: anno 1131(canone 6). Per i canonici della riforma, è chiaro. Questo canone sarà approvato successivamente dal concilio generale “Lateranense del 1139), come è dimostrato dal parallelo che il concilio stabilisce: per i canonici regolari (e per le canonichesse) c’è la regola di S. Agostino, come per i monaci (e le monache) c’è quella di S. Benedetto. Da quella data, almeno, simbolicamente fissata, la regola di S. Agostino divenne la carta fondamentale dei canonici.Ad essa venivano affiancate altre leggi particolari e diversificate, secondo le esigenze e le finalità delle varie congregazioni o canoniche, chiamate dapprima “Consuetudini” e poi, definitivamente “Costituzioni”. Quindi ogni ramo canonicale ha la regola di S. Agostino e proprie Costituzioni. Unico legame vero di unione tra le varie congregazioni è stata la regola di S. Agostino e la denominazione generale di “Ordine dei Canonici Regolari di S. Agostino”. Nel 1959, con la Bolla “Charitatis unitas” di Giovanni XXIII la maggior parte delle congregazioni dei Canonici regolari ili S. Agostino ancora esistenti, hanno realizzato una Confederazione, per valorizzare la loro vita e l’ideale della comunione
Capitolo SestoI canonici regolari nei secoli XIII e XIVSplendore
La riforma gregoriana portò l’ordine canonicale ad un vertice di splendore. Nello stesso tempo lo divise: canonici regolari e canonici secolari.La divisione, sul momento passò inavvertita; la ferma decisione di aderire alla riforma consolava la chiesa; gli episodi di cristallizzazione e di resistenza, si pensava, sarebbero scomparsi e tutta la chiesa sarebbe stata riformata. L’attenzione dei papi fu premurosa e costante per almeno due secoli. Spigolando tra i loro interventi, possiamo ripercorrere la traiettoria del cammino dei canonici regolari, fino al vertice del loro momento di massimo splendore, e oltre, nella fase discendente del declino.Urbano II (10SS-1099): esalta la vita comune presentandola come la più consona all’esistenza dei chierici, perché corrispondente al modello offerto dagli apostoli. Secondo lui, i canonici non possono chiedere di lasciare il proprio monastero per entrare in altri, magari di monaci, di più severa o più alta osservanza: la vita canonicale è insuperabile.
Si tratta certamente di una affermazione di principio; il papa stesso ebbe atteggiamenti più flessibili, comportandosi con realistico buon senso e a volte concede l’autorizzazione al passaggio ad altri monasteri, a volte no. Inoltre egli nomina già la regola di S. Agostino come regola dei canonici regolari (o almeno come una delle regole che i canonici regolari hanno adottato).Pasquale II (1099-1118): ha molti rapporti con la prediletta canonica di S. Frediano (Lucca), di cui chiama a Roma il priore come collaboratore suo, per un certo periodo. In particolare gli chiedeva di aiutarlo ad introdurre la vita comune regolare tra i canonici di S. Giovanni in Laterano. Tratta con i canonici di S. Maria in Porto (Ravenna). S. Rufo (Avignone), S. Nicola (Arrouaise), il cui fondatore, Conone, viene chiamato a Roma e fatto vescovo di Preneste, S. Vittore (Parigi), e altri. Cerca di introdurre i canonici di S. Frediano in S. Giovanni in Laterano. Questi obbediscono, ma debbono fuggire “persecutione cogente“, come succederà in futuro ai canonici di S. Maria di Frigionaia.[28] Vi torneranno sotto Callisto II. “quiete reddita“.[29]
Nel linguaggio di Pasquale II già si comincia a distinguere che i canonici regolari professano una forma di vita religiosa; non sono più, cioè, l’unica forma della vita del clero: nella bolla di approvazione della congregazione dei canonici di Arrouaise, infatti, li loda perché “sono fuggiti dal mondo” e sono diventati “servi di Dio”, termini solitamente riservati ai monaci.Gelasio II (1118): un papato breve. Ha il merito di aver dato l’avvio alla congregazione dei canonici regolari di S. Norberto, i Premostratensi (anche se essi fanno risalire l’inizio della loro congregazione al Natale del 1121, quando un gruppo di quaranta chierici professò la vita canonicale a Prémontré).Onorio II (1124-1130): era egli stesso canonico regolare di S. Maria di Reno di Bologna.[30] Anche come tale, s’impegna per la diffusione e l’espansione dei canonici. Per esempio concede il titolo di S. Croce in Gerusalemme al cardinale Gerardo Caccianemici, canonico regolare, poi diventato papa col nome di Lucio II († 1144/1145).
Sotto il papa Onorio II viene fissata la formula con cui verranno definiti i canonici regolari: “Ordo canonicus secundum beati Augustini regulam” (Ordine dei canonici secondo la regola di S. Agostino) e non più semplicemente: “Ordo canonicus” oppure “Vita canonica“. Il perché di questo passaggio lo si può intuire: ormai la regola di S. Agostino si è affermata e i canonici si sono maggiormente differenziati proprio per averla adottata. Ed è a causa di queste espressioni che, spesso la parola “agostiniano” viene attribuita erroneamente agli “Eremiti di S. Agostino”, confondendoli con i canonici regolari. Un esempio: si dice che Erasmo di Rotterdam era “agostiniano”, in realtà è stato canonico regolare di S. Agostino, cioè con la regola di S. Agostino (lo fu per un certo periodo, poi chiese ed ottenne la dispensa dai voti), mentre Lutero era realmente “agostiniano”, cioè apparteneva agli Eremitani di S. Agostino.Innocenzo II (1130 – 1113): di lui si può ricordare che in una lettera all’arcivescovo di Salisburgo per la conferma della canonica regolare di Berchtesgaden dice con solennità: “Con la autorevolezza della Sacra Scrittura, affermiamo che la vita dei canonici è iniziata nella chiesa delle origini”.[31] E si può ricordare la celebrazione del concilio Lateranense II (1139)), in cui si ribadisce il parallelo:
i canonici regolari hanno la regola di S. Agostino, mentre i monaci hanno quella di S. Benedetto[32], già stabilito nel concilio di Reims nel 1131.Eugenio III (1115-1153): c’è almeno un episodio significativo nel suo pontificato. L’arcivescovo di Milano, Oberto, aveva restaurato la propria cattedrale, portandovi la vita comune perfetta, allora chiese l’approvazione al papa per questa iniziativa. Questi rispose con una bolla (19/12/1149) in cui. non solo approva l’operato dell’arcivescovo, ma svolge quasi una lezione in merito. Dice che la povertà personale, la mensa comune e il dormitorio comune sono punti irrinunciabili della vita comune. E si rifà all’esempio degli apostoli: “La comunità esiste quando c’è un cuor solo e un’anima sola, come si legge che c’era nel gruppo degli apostoli”.[33]Adriano IV (1154-1159): inglese, era canonico regolare di S. Rufo di Avignone (eletto papa dopo il breve pontificato di Anastasio II). Si contano molti suoi interventi nei confronti dei canonici regolari, di monasteri, di conferme e benefici loro donati: anche perché il suo pontificato coincise con un periodo di larga espansione dei canonici regolari. Si trova a dover risolvere un caso analogo a quello di Milano. Questa volta riguarda Piacenza e il suo vescovo, Ugo. che voleva la riforma (in senso “regolare”) della sua chiesa. Anche Adriano IV coglie l’occasione per esprimere il suo pensiero, o meglio la sua dottrina sulla vita comune regolare. Ne viene fuori una sintesi della concezione ascetica medioevale: viene posto l’accento sulla santità personale, come risultato della fuga dal mondo e della vita obbediente ed austera; la cura “animarum” deve essere svolta con cautela e con attenzione perché può essere occasione di distrazione e pretesto di mondanizzazione, inoltre è vista prevaletemele come un compito amministrativo, non come impegno evangelico.
[34]Alessandro III (1159-1181): possiamo far risalire a lui il periodo di decadenza dei canonici regolari (queste periodizzazioni sono sempre un po’ forzate e relative): le frequenti assegnazioni di prebende canonicali ad ecclesiastici suoi protetti da lui praticate, favorirono il processo di secolarizzazione dei capitoli e l’abuso della non-residenza. Forse perché il suo pontificato fu avversato da vari antipapi (Vittore IV, Pasquale III, Callisto III; ma questa difficoltà fu sperimentata anche dai suoi predecessori, almeno in parte) e da contrasti col Barbarossa e Enrico III di Inghilterra (che aveva fatto assassinare Tommaso Becket, che il papa canonizzò rapidamente. nel 1173): aveva, così, bisogno di ingraziarsi la gente. Certo, anche lui si mostra preoccupato di difendere la vita comune del clero. Anzi egli mostra una lodevole e realistica flessibilità (che poi sarà imitata dai successori) rispettando iniziative locali nell’osservanza della vita comune, senza schematismi rigidi: “Finché tra voi ci sarà la vita comune regolare”, dice, ad esempio al capitolo di Tolosa; oppure “Per quanto si possa riconoscere come utile alla crescita della vita comune e al suo servizio”, dice ad Oseney, in Inghilterra.[35] Nel 1179 presiedette il concilio Lateranense III: ne! canone 10 è vietato ai monaci e ai canonici regolari di risiedere soli nelle chiese loro affidate. Nel canone l’i si fa esplicito riconoscimento de! capitolo come organo di decisione e non solo di “ascolto”: le decisioni saranno prese in base alla “maior et sanior pars”.[36]
Declino
Si arriva, così, al grande pontefice Innocenzo III (1198-1216). Sotto il suo pontificato avviene una svolta decisiva nell’ambito della vita religiosa con la nascita degli ordini mendicanti (Domenicani, Francescani, Carmelitani, Agostiniani, ecc.).La loro novità è, sia di ordine spirituale (fraternità, povertà, comunitaria, slancio apostolico itinerante), sia di ordine organizzativo (regime centralizzato). I papi del tempo sostennero il loro sviluppo e ne favorirono ben presto la clericalizzazione, per dare ai fedeli un clero all’altezza delle loro aspettative.I canonici regolari difettano di una organizzazione centrale. Il fatto, unito. al crescente distacco da un rapporto stretto con i vescovi, li isola in gruppi diversi. Perché, privi di una struttura unitaria, essi sono soggetti all’iniziativa del vescovo diocesano, tutt’al più organizzati nell’ambito regionale, esposti a modifiche ad ogni mutare di vescovo, con vita discontinua. spesso impaniati in dispute patrimoniali, non potevano che apparire come un movimento fragile, di relativa affidabilità. Anche se alcuni nuclei sono fervorosi ed influenti e il movimento canonicale è diffuso quasi ovunque (a raggio europeo), da questo momento storico, i canonici hanno imboccato una via defilata.
Con molto realismo i papi favoriscono anche altre forme meno “canoniche” di vita canonicale: questo porta calo di fervore e di impegno, sia nella pratica della vita comune, sia nella presenza pastorale.Non che i papi trascurino i canonici regolari; alcune iniziative vengono prese; forse, però, senza il necessario mordente e una larga prospettiva, vista anche la scarsa corrispondenza dei canonici.Innocenzo III, nel concilio Lateranense IV (1215), fa approvare una mozione in cui si obbliga i canonici regolari a celebrare capitoli triennali provinciali (canone 12). Si tratta di provincie nel senso geografico, non nel senso di suddivisioni dello Ordine, che ancora non esiste come organizzazione autonoma. Lo scopo era quello di discutere seriamente sull’ordine canonicale sulla sua continua riforma e gli adattamenti necessari. I capitoli possono essere guidati da due visitatori esterni (per lo più cistercensi esperti in questo genere di riunioni) che avevano ampie facoltà discrezionali. Salvo rari casi (c’è, ad esempio, notizia di un capitolo celebrato a Salisburgo nel 1271 e la notizia di capitoli abbastanza regolari in Inghilterra, celebrati praticamente fino alla riforma protestante), il provvedimento resta praticamente disatteso.
Bonifacio VIII (1294-1303): nel 1299 sostituisce i canonici regolari di S. Giovanni in Laterano, con 15 canonici secolari. I canonici regolari vi erano giunti da S. Frediano e vi erano da ormai 175 anni. La motivazione di questa sostituzione non è delle più convincenti: i canonici secolari appartengono a famiglie romane, dunque avranno più a cuore gli interessi della cattedrale del papa. Dovranno passare altri 140 prima che i canonici regolari tornino in S. Giovanni in Laterano: questa volta saranno quelli di S. Maria di Frigionaia (Lucca). Anche la loro sarà una permanenza temporanea, sufficiente, però, per averne il nome di “Canonici Regolari Lateranensi”.Benedetto XII (1334-1342): opera un altro intervento, rimasto per molti anni come punto di riferimento per la vita canonicale, con la bolla “Ad decorem Ecclesiae sponsae“. In essa si rivede tutto l’ordinamento spirituale e quello giornaliero della vita dei canonici regolari; il documento diventa una specie di regola” dei canonici. Ribadisce l’obbligo dei capitoli triennali, già richiesto dal concilio Lateranense IV (can.12); anzi inasprisce questa disciplina fino a colpire di scomunica chiunque impedisca la loro celebrazione: segno di una certa tensione, quando le iniziative assumono caratteri così nevrotici e minacciosi.Siamo nel corso della permanenza dei papi ad Avignone, causata sia dall’influenza della politica francese, sia dall’obbiettiva insicurezza della vita a Roma. I papi erano andati via da Roma praticamente all’inizio del 1300: Benedetto XI (1303 – 4), visto fallire un tentativo di conciliazione con i Colonna, che gli militavano contro, fuggì da Roma; dapprima di rifugiò a Viterbo, poi a Perugia, dove stabilì temporaneamente la corte pontificia: quindi la corte pontificia fu trasferita ad Avignone (1309), dove rimase per quasi tutto il secolo.
Ci fu una breve permanenza di Urbano V a Roma (1368-1370); ma il papa tornerà a Roma, in modo definitivo il 17 gennaio 1377 (sarà Gregorio XI).La maggior parte dei documenti del secolo XIV, come si sa, è andata perduta, quindi non si può accertare quale effettivo impatto abbiano avuto le direttive del papa Benedetto XII, pur tanto tassative. Tuttavia nel panorama generale emerge il quadro di un declino inarrestabile, non solo dei canonici; è “l’autunno della chiesa”. L’autunno prepara la stagione nuova. Qualche volta, come abbiamo osservato, le due stagioni convivono, perché la vita è sempre complessa e nello stesso periodo si possono vedere segni di decadenza e segni di vita nuova. Intanto, però, sulla chiesa si abbatte un nuovo problema: poco tempo dopo il ritorno del papa a Roma scoppia “Lo scisma d’Occidente”, che per molti decenni porterà turbamento e confusione nella coscienza cristiana, incerta sulla scelta di due e perfino di tre papi (1378-1417).Anche i vescovi furono coinvolti nelle fazioni e nelle lotte che dividevano regioni e città e di conseguenza la vita del clero, meno vigilata, diventò maggiormente indisciplinata. Il senso religioso del popolo cristiano, fortemente radicato, non venne meno; tuttavia qualche cosa stava mutando e profondamente. Per esempio i racconti beffardi e licenziosi dei novellieri dell’epoca mostrano un rapporto nuovo della cultura verso la chiesa e la realtà umana, nuovo e venato di anticlericalismo, sia pure più ridanciano che polemico.
A questo si deve aggiungere la crisi della “Scolastica”, intaccata dalla nuova spiritualità popolare, immediata e devozionale, propagata dai nuovi ordini religiosi e dal loro apostolato itinerante, spesso estemporaneo e bizzarro. Visto che il nostro interesse è volto verso la vita comune, può essere interessante ed illuminante osservare la nascita, in questa epoca, di confraternite e terzi ordini e pie congregazioni, sia laicali che sacerdotali: segno che la vita comune esercita sempre, nell’ambito cristiano, un richiamo irresistibile, e se muore in qualche forma, subito rinasce in forme nuove. Ci si avvia, in sostanza, verso una nuova fase culturale, che sarà definita “Umanesimo”, perché al centro dell’attenzione universale colloca l’uomo con le sue problematiche e le sue istanze. Problemi concreti della chiesa, soprattutto della vita religiosa, connessi con questa situazione, sono: la commenda e il superiorato a vita. Li nominiamo in particolare, non perché siano stati gli unici o più gravi, ma perché verranno affrontati con particolare decisione dalle congregazioni canonicali che stanno per nascere nella nuova riforma che si profila nella vita della chiesa, nel secolo che seguirà, cioè nel 1100. Una riforma, vedremo, che si svilupperà in sordina e non riuscirà ad imporsi come fenomeno di massa. I canonici regolari che nasceranno in questo periodo (Lateranensi, Renani) sceglieranno il sistema della mobilità dei confratelli da una casa all’altra; vorranno che gli incarichi di governo non durino di un anno ed infine vorranno che le canoniche in cui vivranno non siamo mai più date in commenda, ma appartengano pienamente ai confratelli. E queste non sono che le manifestazioni esteriori di un desiderio di vita spirituale, di ritorno al vangelo in tutta la sua purezza; insomma della rinascita della vita canonicale, questa volta organizzata in forma di vero e proprio ordine religioso. Con questo ulteriore passaggio storico si competa la parabola del cammino dei canonici regolari; sono partiti nel cuore della chiesa, accanto e insieme ai loro vescovi; sono stati staccati da essi per aver seguito un invito alla riforma (quella gregoriana) che avrebbe dovuto essere di tutta la chiesa e di tutto il clero; ora sono iscritti tra gli ordini religiosi. Per secoli hanno creduto, professato e praticato la vita comune del clero. Chissà che la loro lunga storia non sia stata voluta e condotta dalla Provvidenza perché anche ai nostri giorni (e in quelli futuri) si conosca e si pratichi lo stesso ideale.
[1] A. Ferrua: “Il dialogo che ci salva”; Marietti, 1972[2] K. Baus, storia della chiesa, diretta da H. Jedin, vol 1, p. 181; Joca Book 1975[3] Cfr Mansi 2.676; Conc. Nic. C. 16; Bruns, I, 1941, p. 155[4] “Placuit in totum prohibere episcopis, presbyteris et diaconibus vel omnibus clericis positis in ministerio abstinere se a coniugibus suis et non generare filios; quicumque vero fecerit, ab honore clericatus exterminabitur”.[5] K. Bihlmeyer – H. Tuecle: storia della chiesa; Morcelliana 1967, vol. 1, p. 137[6] Testimonianza si trova in Eusebio: Historie Eccles., 6.43[7] CSEL 69, 90[8] F. Poggiaspalla: la vita comune del clero, Roma 1968, p. 25-26[9] “”la prescrizione degli eretici” 41,2.[10] “Anamnesis”; Marietti 1986; vol 3/1, p. 25 e 33[11] Clara Bruni: “La spiritualità della vita quotidiana” EDB, 1988, p. 69-74[12] Juffgmann: “Missarum sollemnia”, Torino 1961, p. 16[13] M. Augé: “storia della vita religiosa”, Queriniana 1988, p. 5[14] F. Poggiaspalla, o.c. p. 31[15] “Operarios qui mecum sunt”.[16] PL, 16, 1207-1209[17] Migne, 59, 415-520[18] Sull’affermarsi dell’espressione “vita canonica”, cfr Mansi, 8.785; 9.994; 10.626; 11.140)[19] “Hanc debes conversationem instituere quae initio nascentis ecclesiae fuit patribus nostris, in quibus nullus eorum ex his quae possidebat aliquid esse dicebat”.[20] R. Grégoire: “La vocazione sacerdotale” ed. Studium 1982, p. 24[21] “Canones dicimus regulas, quas Sancti Patres constituerunt, in quibus scriptum est quomodo canonici, id est regulares clerici vivere debent”. La citazione è da C. Egger “Canonici Regolari” in Dizionario degli Istituti di Perfezione; 1975, vol. II, p. 47[22] R. Grégoire: La spiritualità canonicale; in “Le grandi scuole della spiritualità cristiana”, ed. O.R. 1984, p. 291[23] Per tutte queste notizie cfr Poggiaspalla, o.c. p. 133[24] B. Calati: “La spiritualità del Medioevo”; ed. Borla 1988, p. 95-96[25] Eutimio Sastre Santos: “storia della vita religiosa”, ed. Queriniana 1988, p. 277-8[26] Regola di S. Crodegango, cap. 31[27] Cfr DIP, vol. 2°, p. 58[28] Cfr La seconda parte, al cap. 3°[29] Migne, PL., CLXIII col. 1201, n. 127[30] Cfr la parte seconda, al cap. 2°[31] “Divinae Scripturae pagina testante, dicimus quod canonicorum vitam a primitiva Ecclesia sumpsit exordium” (Migne PL, CLXXIX, 628)[32] Cfr canoni 9 e 28[33] “Debet esse cor unum et anima una, ut etiam in coetibus apostolorum legitur, communitas”.[34] PL CLXXXVIII, 1570 – 1578[35] “donec apud vos canonicus ordo duraverit” (a Tolosa)“quoad ad regularis observantiae augmentum et rei communis commoditatem spectare nascat” (ad Oseney).PL. CC, 156[36] Non si sa ancora decifrare esattamente il computo di questa espressione “la parte maggiore e migliore”